Dexter, the Dark Passenger: un piccolo capolavoro di crime-fiction, almeno fino alla quarta stagione

L’innominabile e recondito mascalzone che sta dentro ognuno di noi e che, nel momento in cui una combinazione ben determinata di eventi si incastra, esce in tutta la propria brutalità Certo, detto così Dexter non sembra nulla di originale. Sarete lì a dire: «Ecco, il solito polpettone sul Male latente che prende vita nelle azioni dello sfigato di turno», ma vi posso assicurare che questa serie trasmessa da Showtime dal 2006 non ha nulla di già sentito o ridondante.

Dexter Morgan si porta dietro un incubo. È un membro stimato della polizia di Miami, esperto nella lettura del blood-pattern, quella scienza della dinamica che studia la direzione degli schizzi dei liquidi (in questo caso, sangue) per ricostruire ciò che è accaduto sulla scena del crimine. I suoi colleghi lo considerano un punto di riferimento, nonostante lui sia un uomo schivo che difficilmente dà confidenza a qualcuno.

Questa sua refrattarietà è il modo che lui utilizza per celare il suo segreto. Esperto forense della polizia durante giorno, serial-killer dopo il crepuscolo. E anche qui, mi direte, c’è poco di originale perché uno sdoppiamento come questo si è già visto, letto, sentito, scritto e immaginato svariate volte.

Potrei parlarvi per ore del codice comportamentale seguito da Dexter e insegnatogli dal padre poliziotto (che aveva riconosciuto nel figlio adottivo quella scintilla di malvagità latente), che gli impone di uccidere soltanto i “bad men”, cioè assassini, criminali, delinquenti sfuggiti alle manette; potrei parlarvi per ore dell’intrigante rapporto tra il protagonista e la sorella; potrei parlarvi per settimane dei dialoghi tra il nostro serial-killer preferito e il fantasma di suo padre, una sorta di coscienza che sorregge il Codice e lo salva da gesti che comprometterebbero la sua incolumità. Ma non vi convincerò, se non imponendovi di guardare la serie.

Infatti, il punto di forza di Dexter, in special modo nella prima serie, è la sceneggiatura. Equilibrata, assolutamente imprevedibile, avida ma non invasiva nel bersi tutta l’attenzione dello spettatore. La mossa vincente di Dexter sta nella costruzione dei personaggi, e in particolare modo nel protagonista e nella sua nemesi (della quale non andremo a svelare l’identità, altrimenti sarebbe uno spoiler selvaggio).

Il dialogo interiore di Dexter Morgan con il suo Dark Passenger lo trasforma immediatamente in un doppio personaggio. Quella che vista da fuori potrebbe sembrare una banalità quasi fastidiosa, cioè la narrazione fuori campo sorretta dalla voce interiore di Dexter stesso, diventa in realtà punto cardine della vicenda, laddove il Passeggero Oscuro, questo incubo di violenza latente (ma neanche tanto) che il protagonista si porta appresso, diventa un vero e proprio personaggio senza forma né interprete.

Il rapporto tra Dexter e la sua identità segreta ricorda ad esempio quella che attanaglia il Batman di Frank Miller, un eroe pieno di problematiche irrisolte, sempre sull’orlo del precipizio che egli stesso si è costruito. Ma ai toni gotici e noir si sostituiscono le soleggiate spiagge della Florida, le musiche caraibiche che ritornano come una risata di scherno durante le vicende, le camicie hawaiane e i cappelli di paglia.

Il sangue e l’oceano. L’omicidio e la maracas.

La sceneggiatura è fatta di contrapposizioni, quasi un frattale. È come se Miami fosse la riproduzione in scala ingigantita di Dexter stesso (o viceversa, come se Dexter fosse un surrogato umano della città), una sorta di ossimoro urbano in cui si alterna la brutalità delle stragi alla spensieratezza dei climi tropicali. Insomma, la permanenza del Dark Passenger non è caratteristica soltanto del protagonista, ma peculiarità molto più diffusa di quanto inizialmente non potessimo credere.

Ognuno dei personaggi, mano a mano che la vicenda si svolge, si sgretolerà sotto lo sguardo dello spettatore, rivelando il proprio lato oscuro, sorprendendo chi si stava abituando a un certo tipo di direzione, scartando repentinamente verso un luogo che non ti aspetti.

  • Debra Morgan, sorellastra e collega di Dexter, unico legame esistente tra il protagonista e il suo terribile passato.
  • James Doakes, il solo collega a cui Dexter non piace, l’unico ad annusare l’esistenza sottopelle di quella verità innominabile.
  • Jaimie Batista, il poliziotto buono, l’amicone di tutti, sempre vittima degli eventi, sempre pronto a rimettere tutto a posto.

A questo si mescolano le invidie dei colleghi, le ambizioni di altri, i tradimenti di alcuni, il soccombere di tutti, prima o poi, più o meno trascinati nel vortice di follia che il Dark Passenger di ognuno (ma più di tutti, di Dexter) sceglie come propria inevitabile conclusione.

Se le prime 4 stagioni di Dexter sono estremamente godibili (e forse le prime due sono tra le più belle di crime-fiction mai realizzate), non si può dire lo stesso dalla quinta in poi. Purtroppo, la promettente serie televisiva, che nei piani iniziali si sarebbe dovuta concludere proprio alla quarta stagione, ha subito il contraccolpo commerciale del “arraffiamo tutto e subito”, di fatto rovinando quella che avrebbe potuto con facilità diventare una serie cult dalle esorbitanti vendite per i prossimi vent’anni. Ora, questo accade spesso, ma quando accade a una produzione così ben riuscita è un vero peccato.

La quinta, la sesta e la settima serie sono quanto di peggio si possa vedere nel tentativo di auto-distruggere la figura del nostro Dark Passenger, rovesciandone di fatto tutti i canoni positivi. Se il punto di forza delle prime quattro stagioni era la sceneggiatura, beh, qui aspettatevi dialoghi artificiosi, personaggi raffazzonati e privi di credibilità, ritmi spenti ed eventi scoordinati.

Se un altro punto di forza delle prime stagioni era l’inaspettato, beh, qui aspettatevi di vedere tutto ciò che vi aspettate. La banalità, sorretta da quei momenti di finta suspense a cui produzioni di bassa qualità ci hanno abituati, è la vera regina del prosieguo di Dexter, che perde ogni pathos, ogni climax, ogni valore minimamente artistico.

Un vero peccato, e il mio consiglio è di fermarsi alla visione della quarta stagione (che finisce appositamente con un colpo di scena sconvolgente, sostituito all’iniziale idea della morte di Dexter), così da risparmiare urla, fegato consumato da bile e alcol e un sicuro biglietto per l’inferno a causa delle troppe bestemmie.

Una delle note più positive è la sigla di apertura, piccolo capolavoro di fotografia (eccellente per tutta la durata delle prime quattro stagioni, eccellenza anche questa perduta nel prosieguo) che non smetterei mai di vedere e rivedere. Serie assolutamente da guardare in lingua originale, perché trattasi di uno dei più aberranti doppiaggi nella storia del genere umano.

E, durante la visione, non fatevi venire lo sghiribizzo di dare ascolto al vostro Dark Passenger. Dexter potrebbe essere fin troppo convincente.