Frank Miller, la leggenda. L’omaggio di Matteo Strukul a un autore capace di reinventare il fumetto e il modo di raccontare storie.

Frank Miller, la leggenda. Aspettarlo, percorrendo il labirinto degli stand di Piazza Napoleone, a Lucca, prendendo gli albi, sfogliando le pagine di alcune delle sue opere immortali come quelle dei grandi romanzieri e pittori perché il carisma, la forza eversiva, lo splendore sono quelle dell’Artista definitivo, indiscutibile, quello che vive sulla propria pelle un modo di intendere il fumetto.

Riempirsi gli occhi, ancora una volta, con le tavole di Sin City, ammirarne quello stile unico, in bianco e nero, le esplosioni monocromatiche in giallo e rosso, che ogni tanto si fanno largo in quelle sue storie che fondono l’essenza stessa del noir di Raymond Chandler con la purezza dei disegni di Will Eisner.

Oppure, affogare nel mito di Leonida e delle Termopili, dei suoi Spartani in 300, parabola della tragedia greca per eccellenza, del destino già scritto, scolpito nella storia, dell’ineluttabile che preconizza la fine sin dal principio del racconto, sin da quando il re ama in una notte di fuoco la sua regina, bellissima e spietata, che ne attenderà per sempre il ritorno. Invano.

E poi spostarsi e rimandare a memoria Batman: The Dark Knight e Batman: Year One in quella ridefinizione del Cavaliere Oscuro che cambiò per sempre la storia dell’uomo pipistrello rendendolo quello che è oggi.

Senza contare le infinite trasposizioni cinematografiche tratte dal suo lavoro, meraviglie filmate da nomi come Robert Rodriguez, Christopher Nolan, Zack Snyder, autori importanti del nuovo cinema americano, comunque la si voglia mettere, autori radicali nella loro visione quasi manichea di un cinema visivo, potente, estremo.

E poi Ronin e Holy Terror racconti devianti, racconti con le ombre addosso, proprio come lui, uscito da un cancro, redivivo, che arriva sul palco del Teatro del Giglio, a Lucca, dinoccolato, traballante, ma con lo sguardo assassino e quella voce impastata di ferro e cartavetro, il cappello nero a tesa larga, il ghigno che incide il volto affilato, lungo, teso come una lama di coltello.

Frank Miller, la leggenda. L’uomo che ha plasmato il fumetto, gli ha insufflato la vita e l’ha fatto diventare una cosa diversa: l’ha reso letteratura disegnata. Punto e basta. Un autore completo. Un autore simbolo. Un artista che cita Dino Battaglia, Sergio Toppi, Hugo Pratt fra i suoi maestri, uno che ha amato le opere di Milo Manara, cogliendone bellezza e ironia, uno che ama la sua città: New York.
Che poi è Sin City, la città del peccato. La sorella bastarda di Gotham City, in cui ha raccontato buona parte delle sue altre storie. La città di Miller come grande teatro di vite spezzate in bianco e nero, come inferno quotidiano per le anime di vendicatori, antieroi, donne dalla bellezza mozzafiato, icone di sensualità, di seduzione, dee.

Frank Miller che sorride, mentre risponde, Frank Miller che azzera quasi tutto, Frank Miller che ti fa percepire la sua grandezza parlando degli altri, quasi nascondendosi, ascoltando, lasciando che il suo fascino aleggi e si diffonda come bruma, come un’aura da vampiro sulla platea, nei palchi e poi ancora più su fino al loggione e in galleria.

Difficile rendere l’idea di cosa sia stato ascoltarlo. Eppure, in un certo senso, lui è davvero quello che scrive, trovi una coerenza nelle sue parole, in quel suo essere romantico e melanconico, con un sorriso amaro a fior di labbra, con la battuta tagliente, il filo della polemica che guizza come la lingua di un drago.

Frank Miller, la leggenda. Appunto.