Intervista ad Alessandro Berselli

Alessandro Berselli (Bologna, 1965) esordisce come umorista nel 1991; le sue “Lettere al condominio” lo portano nel 1992 al Maurizio Costanzo Show. Dal 2003 inizia un’attività parallela di scrittore noir. Tra le sue opere ricordiamo “Storie d’amore, di morte e di follia” (ARPANet, 2005), “Io non sono come voi” (Pendragon, 2007), “Cattivo” (Perdisa Pop-Babele Suite, 2009) e l’ultimo uscito “Non fare la cosa giusta” (Perdisa Pop – I Corsari, 2010).

Grazie per aver accettato questa intervista. Iniziamo dalle presentazioni: chi è Alessandro Berselli?

Scrittore, noirista per caso, musicista fallito, presuntuoso indagatore dell’animo umano, egocentrico narcisista. Devo continuare?

Dopo aver letto “Non fare la cosa giusta”, la domanda sorge spontanea. Quanto c’è di autobiografico nel protagonista? Ti rivedi nei suoi dubbi, disillusioni e rancori oppure ti senti, come Nanni Moretti in uno dei suoi film, uno “splendido quarantenne”?

Di autobiografico c’è parecchio, soprattutto nella prima parte, quella che riguarda l’autopsia della sua vita di coppia. Quando ho scritto “Non fare la cosa giusta” stavo praticando l’eutanasia alla mia vita sentimentale, quindi mi è stato facile specchiarmi nelle dolorose riflessioni di Claudio Roveri. Poi chiaro che c’è l’elaborazione letteraria. Il suo cinismo, il suo senso di fallimento, non mi appartengono. E nemmeno la sua violenza, la sua xenofobia.

Lo stile che usi è molto curato e decisamente minimalista. Sappiamo che ami Breat Easton Ellis. A me ha ricordato anche certi noir di Luigi Bernardi o Barbara Baraldi, giusto per citare due autori che hanno pubblicato con Perdisa. Vuoi indicarci quali sono i tuoi modelli?

Tanti, e non tutti noir. Mi piace la scrittura introspettiva, i romanzi con l’andamento lento, le spirali avvolgenti piuttosto che le accelerazioni. Modelli tanti, tutti alti. Il novecento europeo. Carver e tutti gli americani. Il primo Stephen King. La letteratura inglese degli anni novanta. I primi tre libri di Ammaniti.

Definirei “Non fare la cosa giusta” come un finto-noir, in quanto mi è sembrato che la cosa più importante per te fosse l’approfondimento psicologico dei personaggi, la dimensione esistenziale, più che il puro meccanismo del giallo. Sei d’accordo con chi, come Raul Montanari o Gianni Biondillo, auspica il superamento del noir classico per giungere al cosiddetto post-noir?

Raul e Gianni sono più addentro alla scrittura di genere, quindi più qualificati per segmentare il noir. Di certo c’è che l’aspetto investigativo è per me un dettaglio, non ha tutta questa importanza. In effetti hai ragione: sono molto più interessato ai cervelli dei protagonisti che alle loro azioni. Utilizzo molti standard nei plot, negli intrecci, per poi sperimentare nello stile e nella costruzione dei personaggi. I soggetti più della trama.

Partito come comico, sembri aver trovato la tua dimensione nel noir. Pensi di continuare coerentemente lungo questa strada o in futuro dobbiamo aspettarci da te altro, per esempio un thriller cospirazionista o un romanzo storico…

L’evoluzione c’è sempre, ma credo alle modifiche progressive della propria poetica piuttosto che i grandi stravolgimenti. Le prime cose che scrivevo erano ultra pulp, adesso sono più meditativo. Il romanzo storico non mi appartiene, il thriller che prescinde dall’aspetto psicologico nemmeno. Sto ultimando “Nevermind”, storia di un sabato sera drammatico a cinque voci con un osservatore esterno. Quindi chiudo la trilogia del monologo interiore.

Ultima domanda. Sei uno degli scrittori italiani più amati dalle donne, ci puoi rivelare il segreto del tuo successo?

Credo sia il dopobarba. Oppure il lato femminile del mio carattere, che tengo sempre molto evidente. O forse ormoni e neuroni miscelati nel giusto modo. Non saprei davvero. Quindi funziona?