Intervista a Alberto De Poli

Intervista a Alberto De PoliPartiamo dalla tua biografia. Affermi che la lettura ti ha aiutato a scoprire il mondo. In che senso?

Nella mia biografia si legge anche “lavora da sempre”, questo vuol dire che ero poco più di un bambino e già mi trovavo in posto che non doveva essere quello di un ragazzino di quattordici anni. Ma il Nordest di qualche anno fa era anche questo: abbandonare i libri, e abbassare la testa al sistema. Con l’andare degli anni, però, mi sono accorto che mancavano dei pezzi alla mia vita e li ho trovati leggendo, appassionandomi ai libri. Tutte le volte che ne stringo uno in mano provo un senso di benessere, tra le righe dei libri si possono trovare mondi distanti anni luce dal tuo vivere, ma anche altri che ti sono molto vicini, e proprio quest’ ultimi mi hanno aiutato ad aprire gli occhi, fino a portarmi a scrivere questo romanzo.

Ci sono dei libri e degli autori che consideri fondamentali per la tua formazione umana e letteraria? 

Io ho cominciato a leggere molto tardi, prima pensavo fosse una cosa noiosa, quasi una perdita di tempo. Un giorno, a casa della mia ragazza, ho trovato un libro. Era un libro di Niccolò Ammaniti: “Fango”. Il titolo mi prendeva bene, aveva a che fare esattamente con la mia vita, l’ho aperto e già dalle prime righe tra me e le pagine del romanzo si era creata una sorta di complicità. Quel libro l’ho letto – se non ricordo male – in paio di giorni. Da quel momento non ho mai smesso di leggere, e son sempre stato affascinato dai racconti di strada, dalle vite degli ultimi, dei disgraziati, drogati, alcolizzati e quindi, oltre ad Ammaniti, che è un ottimo scrittore che sa fondere sangue e sentimento come pochi, forse il più fondamentale è Irvine Welsh, scrittore scozzese dalle maniere forti, i suoi libri hanno influenzato la mia formazione letteraria e hanno suggestionato anche le pagine del mio libro. Altri autori Italiani sono: Massimiliano Santarossa, amico e grande scrittore delle vite dimenticate, autore dalla penna tagliente senza peli sulla lingua, Massimo Carlotto, forse il miglior scrittore di Noir italiano, e ho molta simpatia per i romanzi di Gianluca Morozzi. Poi come scrittori stranieri, forse quello che mi affascina di più dopo Welsh è: Charles Bukowski, lui come nessun altro ha avuto il coraggio di vomitare sul foglio bianco la sua vita maledetta, così maledetta e così affascinante. Poi  Cormac McCarthy, Bret Easton Ellis, mi piacciono un sacco i romanzi di Edward Bunker e ultima scoperta, consigliato da Massimiliano Santarossa: James Fray incredibilmente potente. Poi tanti altri, compresi Matteo Righetto e Matteo Strukul, due ottime penne del movimento Sugar Pulp.

Come nasce “Incubi a Nordest”?

“Incubi a Nordest” nasce tra le mura di un ufficio, più di tre anni fa. Stavo seguendo il catalogo dell’azienda per la quale lavoro con un collega: Dennis Zanatta. In quel periodo eravamo entrambi immersi nelle letture di Welsh, quindi c’era un continuo scambio di idee, battute e perché no? Sogni nel cassetto. Una mattina come le altre, parlando del più e del meno, Dennis mi propose di scrivere un libro a due mani. Io accettai subito e come prima cosa – visto che l’avevo conosciuta da vicino – mi venne in mente di raccontare la vita di un operaio. Andai a casa e cominciai a scrivere.

Con la complicità di Dennis, son venuti alla luce i nomi dei personaggi, termini, luoghi e ogni sera quando tornavo a casa scrivevo, trascurando ore e ore di prezioso sonno. La storia era talmente coinvolgente che tutto quello che vedevo per la strada, potenzialmente poteva trovare spazio nelle pagine del romanzo. Il progetto a due mani non si è più concretizzato, ognuno ha scritto il proprio libro. Dopo un anno di lavoro, con mia grandissima soddisfazione, son riuscito a mettere la parola fine. Poi ho avuto la fortuna di trovare un editore (edizioni la Gru di Padova) che ha creduto nel mio romanzo fin da subito e che ha messo anima e cuore nello sviluppo del progetto di stampa, quindi un ringraziamento speciale va a Serena e Massimiliano.

Chi è Adriano Biancon?

Adriano è un ragazzo trentenne figlio maledetto degli anni zero, cinico e maschilista, anche se, quando scopre veramente quello che desidera, si accorge che sotto il suo petto pulsa un cuore vero. Adriano si sente a disagio nel posto in cui vive, nel luogo in cui lavora, tanto da odiare i suoi colleghi perché li vede dei perdenti, vede le loro vite come quelle degli uccelli messi in gabbia, e non c’è cosa più crudele di rinchiudere una creatura nata per volare in una gabbia, come non c’è cosa più crudele di imprigionare degli uomini nati per vivere in carceri di cemento armato otto ore al giorno, ma questo è quello che l’uomo chiama benessere e ad Adriano tutto questo non piace. La sua salvezza sembrano essere gli amici, lo sballo e la voglia di fuga. Scrivendo questo libro ho scavato nelle cicatrici del mio passato, e anche se non è un romanzo autobiografico, non posso nascondere che Adriano, i luoghi, la fabbrica, hanno a che fare con il mio trascorso.

Ciò che colpisce in questo romanzo è la rabbia del protagonista per il luogo in cui vive, per la figura di un padre padrone, per il sistema che ha attorno e che gli è nemico. Un senso di inadeguatezza che normalmente si pensa appartenga più ai giovani, agli adolescenti, eppure Adriano ha già trent’anni è un uomo fatto, come mai non riesce ad adattarsi come invece sembrano fare tutti i suoi amici?

La storia del trentenne disadattato  mi è venuta in mente guardandomi attorno. Ci avevano promesso i sogni di gloria, la locomotiva d’Italia qualche anno fa correva spedita con la testa alta, sembrava che nessuno potesse fermarla. Invece ogni giorno si legge sul giornale che stiamo raschiando il fondo, la locomotiva si è inceppata per la voglia di ingordigia, il dio denaro si è trasferito all’estero e ha le sembianze di un piccolo ometto dai capelli neri e gli occhi a mandorla. Quelli che più ne stanno pagando le conseguenze sono i trentenni di adesso, a volte troppo vecchi perfino per trovare un lavoro, a volte troppo giovani per un paese di vecchi, c’è chi trova la strada giusta, chi invece continua a vagare nell’oblio, Adriano è uno di questi, è la rappresentazione di quelli che non vogliono passare all’età adulta, anche se, in più di qualche passaggio del libro, Adriano si fa delle domande, alle quali non riesce a dare delle risposte concrete.

La sopravvivenza di Adriano in questo Nordest che non lascia scampo si concretizza nel viaggio, in un piano di fuga. E la sopravvivenza di Alberto dove sta?

La sopravvivenza di Alberto sta nella famiglia e nelle passioni. Ho un figlio di sette anni e una moglie che mi amano e mi sostengono in tutte le cose che faccio, dalla musica, allo scrivere, al lavoro. Quando ero più giovane anch’io avevo un desiderio di fuga, di mollare tutto e dimenticare le mie origini. Adesso invece ho qualcosa su cui contare, vedo le cose in maniera diversa e in modo molto positivo.

Il libro si apre con un brano tratto da una canzone di Simone Piva e i Viola Velluto, come mai questa scelta?

Ho scelto uno spezzone di “vivere meglio con me” di Simone Piva e i Viola Velluto perché le parole di questa canzone sentivo che potevano sposare bene la causa, Adriano in fondo voleva prima di tutto vivere meglio con se stesso. Poi per dare voce alla musica indipendente Italiana, che purtroppo, il più delle volte, viene sottovalutata  e viene dato spazio a canzonette venute fuori da qualche reality show, e nel mio piccolo ho voluto premiare Simone come simbolo del movimento rock indipendente.

Bene Alberto, un’ultima domanda: Massimiliano Santarossa ti ha definito un “Irvine Welsh veneto”, che ne pensi?

Massimiliano, come dicevo prima è un amico, il paragone a Irvine Welsh mi ha commosso appena ho letto la prefazione e anche se mi sembra un confronto un po’ impegnativo, me lo tengo stretto. Massimiliano è stata la primissima persona a leggere il mio libro, ed è stato il primo a farmi credere in quello che avevo scritto e per questo non finirò mai di ringraziarlo.