“Scendete cretini”. Il tono della mia voce non ammette repliche. Eccoli in fila, i tre capolavori di mamma e papà.

“In ginocchio, adesso”, e indico l’asfalto sporco. Non fatico a farmi obbedire, sono terrorizzati dalla mia scacciacani che credono una pistola vera.
“Ti prego Agnul, che vuoi fare?”, piange Bruno.
“Zitto tu, non meriti di vivere”, gli rispondo. La mia voce sta diventando stridula. Tiro fuori il sacchetto di sabbia e con tre colpi precisi alla nuca li tramortisco.
“Volevate fottermi, eh? Volevate riprendere il giro, merde? E no, cazzo!”, continuo a blaterare in preda all’isteria mentre gli lego le mani con un cordino di plastica nera tagliente. Li sistemo sulla macchina, i due gemelli dietro e Neri di fianco a me. Metto in moto, destinazione una specie di garage che ho affittato da un vecchio matto guercio vicino al parco dei Rizzi dove i miei amichetti perderanno la vita.

Arriviamo alla rimessa, che è più simile a una baracca. E’ appena mezzanotte ma in giro non c’è nessuno. Una cosa che amo di questa città è il silenzio totale che l’avvolge dalle undici di sera in poi, l’assenza della gente e l’ostinata voglia di farsi i fatti propri di ognuno. Vado nella baracca, ne esco fuori con tre siringhe. C’è dentro eroina purissima. Li farò morire di overdose. Nessuno li cercherà perché la madre è morta e il padre è in galera a vita.

Una strana eccitazione mi prende quando infilo l’ago nel collo dei tre. Crepano in poco tempo con le labbra blu, senza un lamento. Nella stamberga c’è un frigo a pozzetto piuttosto capiente che ho comprato e ce li metto tutti e tre. Poi torno a casa, ad aspettare le telefonate che presto arriveranno.
Quattro notti dopo mi chiama Vinciguerra, un tizio che ama la carne giovane. Lui non si era mai rivolto ai tre deficienti da me ammazzati.