The Assassin, premio miglior regia a Cannes, è una noce pazzesca. La recensione di Matteo Strukul per Sugarpulp MAGAZINE.

The Assassin, premio miglior regia a Cannes, è una noce pazzesca, un film esteticamente notevole ma dove, purtroppo, non succede nulla… stavo per andarmene dalla sala… noia mortale… ancora una volta beffato dalla critica che sembra vivere in una realtà dove i poveri cristi come me, che vorrebbero vedere dei film dove ogni tanto accade qualcosa, semplicemente non esistono.

C’ho provato, ce l’ho messa tutto, mi sono beccato i piani sequenza da dieci, dodici, venti minuti senza cambio scena con figure dolenti, silenziose, magnifiche nei loro costumi ma completamente senz’anima con una storia che è raccontata da voci fuoricampo e da alcune rare battute. La protagonista ha certamente una sua bellezza ma il tormento della scelta che dovrebbe dilaniarla, dato che deve uccidere l’uomo che ama, non arriva, nemmeno un po’.

Narrazione orientale? Saggezza cinese? Può darsi, anzi sarà certamente così ma io non la capisco. Forse non sono fatto per le infinite attese, le contemplazioni dell’estetica perfetta, il galleggiamento dello sguardo, la melodia da sette minuti, suonata in punta di dita. Non lo so. Ma l’assassina del film non ammazza nessuno o quasi, il mago si affida a un escamotage risibile per provare a uccidere la propria vittima, la trama è sviluppata in modo bizzarro e con salti logici assurdi. Avevano promesso azione: praticamente non ce n’è. Abbonda invece una sorta di supponenza, e di estetica per l’estetica, davvero intollerabile.

Eppure maestri del cinema asiatico come il giapponese Takeshi Kitano con Zatoichi o il geniale sudcoreano Min Kid-Dong con The Treacherous mi avevano aperto gli occhi, mostrandomi un cinema sensazionale, strepitoso, sorprendente, ricco di azione, di colpi di scena, di dialoghi solenni o mordaci a seconda della situazione e delle svolte drammatiche necessarie allo sviluppo della narrazione.

Certo, esistono profonde differenze fra un maestro giapponese o sudcoreano e uno cinese anche se un gigante come Tsui Hark (cinese) mi ha dimostrato che anche questo cinema può alternare azione e dramma a paesaggi magniloquenti e a profonde riflessioni sull’animo umano, basta guardare capolavori come The Taking of Tiger Mountain o Seven Swords e dunque no, non sono solo io una capra, no, forse una qualche responsabilità ce l’ha anche il maestro Hou Hsiao-Hsien, forse il suo cinema così ineccepibile sotto il profilo formale ed estetico non è adatto a una storia ambientata nel medioevo, o magari il malinteso è tutto nel titolo inglese The Assassin e la colpa è mia che mi aspettavo almeno un morto ammazzato e se l’avessero intitolato The Peacekeeper non avrei commesso l’errore di aspettarmi quello che non c’è.

Ma ciò che più ho trovato frustrante è proprio la totale assenza di profondità della storia, dei personaggi e del c.d. melodramma, non v’è nulla di tutto questo: solo paesaggi magnifici, costumi magnifici, volti magnifici. Per un’ora e tre quarti.

Ho combattuto contro il sonno, ho tentato di comprendere, non ce l’ho fatta. E allora mi domando però come la critica possa definire questo film un capolavoro, senza mai chiedersi se davvero una persona normale riesca a reggerlo.

Non lo so, è colpa mia di certo, ma il punto è che sto film è una palla infinita. State molto attenti. Se siete spettatori medi, come me, abbiatene il giusto timore, potreste pagare per dormire due ore in sala. Tanto vale farlo a casa. A letto.