Zampaglione dovrebbe recitare “Mea Tulpa, mea Tulpa, mea maxima Tulpa…” fino al sanguinamento della cavità orale

Preceduto, per mesi e mesi, da lenzuolate sul nuovo miracolo dell’horror italiano e sull’enfant prodige del cinema di genere, arriva il terzo film di Zampaglione e nessuno degli entusiasti dice: “Scusate, abbiamo scherzato”.

Premesso che il film ha avuto la distribuzione in sala che, col senno di poi, si meritava (tipo che a Padova nemmeno se ne è sentita la puzza, ed a Roma è circolato solo in certi quartieri), si è dovuto attendere l’uscita in DVD per visionare questo capolavoro del rinascimento italiano.

Tulpa

Un Tiromancino, ecco cos’è Tulpa. E Zampaglione è il suo profeta.

La trama ve la devo raccontare, a costo di spoilerare a discapito della tensione che la storia genera nello spettatore, per darvi la misura della cosa.

Dunque, Lisa Boeri (come i cioccolatini) è una manager in carriera con una doppia vita da zoccola pervertita. Nottetempo, infatti, frequenta un club privè di depravati, il Tulpa, con i quali si giace in promiscui amplessi carnali anche sadomaso, come testimoniato dalle cicatrici che la stessa sfoggia, che nemmeno Rambo ha delle robe così addosso.

Il “club della cavallina”, il cui nome fa riferimento niente meno che ad una entità incorporea di immedesimazione della meditazione buddhista tantrica (perché?), è gestito da un santone/guru/bar-tender (perché?) il quale: pare il sosia di Piero Fassino, parla solo inglese (PERCHÉ?!),serve ai suoi clienti dei cocktail ai quali mischia una sostanza ROSSA (attenzione al particolare…) ed elargisce consigli più ermetici del portellone di un sottomarino.

Di punto in bianco, gli occasionali amanti della Boeri cominciano a morire, uccisi da un killer in cappello, impermeabile e guanti neri.

La Boeri si caga addosso ed invece di andare alla polizia, perché si vergogna (adesso si vergogna…) della sua doppia vita, va in giro fino a rifugiarsi dalla sua migliore amica Giovanna. Si scopre chi è l’assassino (non ve lo dico, in quanto è veramente un twist che lascia a bocca aperta formulando la domanda ricorrente “perché?”), il quale si suicida a causa dell’intervento telepatico del santone/guru/bar-tender ed ora anche deus ex machina, e la Boeri viene salvata dai soccorsi arrivati dal nulla.

Tulpa

Dopo qualche tempo, la vediamo rimessa in salute e rilassata: siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, la signora torna al Tulpa (ah, situato in un garage pubblico…) dove il barista ermetico le sorride e le somministra un cocktail mischiato stavolta ad una sostanza BLU (chissà dove l’ho già vista ‘sta cosa della droga rossa e della droga blu…), e lei procede felice verso l’ennesima ammucchiata forte di una nuova sensibilità.

Dissolvenza al nero, titoli di coda. Immagino il silenzio tombale in sala, che se sono Zampaglione me la batterei abbandonando la Gerini come diversivo per gli inferociti.

Tulpa fa pena, mi dispiace: il precedente Shadow non era niente male, e faceva sperare bene nel nostro Zampaglione. E dispiace ancor di più, perché il soggetto proviene da quel Dardano Sacchetti che teorizza il perturbante come elemento cardine di ogni storia horror o thriller che si rispetti. Ma il soggetto è una cosa, la sceneggiatura un’altra, e qui ci ha messo mano Mr. Tiromancino.

Oltre alla sceneggiatura sgangherata e demenziale, Tulpa è anche girato male: guardate,ad esempio, certe scene in cui gli oggetti e gli attori si spostano ogni volta che cambia inquadratura. Manca solo il microfono che fa capolino dall’alto… insomma siamo a livelli dilettanteschi.

Lasciamo perdere la recitazione: la Gerini mostra le tette e fa le faccette. Il film è girato in inglese, che sennò all’estero nun lo vòjono, ed il doppiaggio (che nemmeno un telefilm ce l’ha così brutto) finisce il pessimo lavoro.

Ma allora, cosa ha fatto gridare al miracolo a proposito di TulpaProbabilmente è stato il tentativo (male interpretato) di evocare il giallo argentiano, ed epigoni, degli anni ’70, non soltanto tramite riferimenti espliciti (ad esempio il killer di nero vestito che, comunque, non basta), ma anche tramite suggestioni visive che richiamino quei modelli archetipi.

Il tentativo, però, non riesce, in quanto puro esercizio di stile che solo pochi ed accaniti cinefili sanno cogliere: quanti, tra il grande pubblico (a cui dovrebbe essere sempre rivolto un prodotto commerciale) avranno intravisto, nei violenti omicidi, echi di Suspiria, Profondo Rosso, Inferno e compagnia, che non risiedono tanto nell’efferatezza del gesto e della rappresentazione, quanto nel suggerire tramite un particolare?

Tulpa

Bello, ma non sufficiente per poter dire di aver riportato in auge, con Tulpa, il giallo all’italiana. Meglio di Zampaglione hanno fatto altri: Amer (2009) di Hélène Cattet e Bruno Forzani, e Berberian Sound Studio (2012) di Peter Strickland sono due esempi in cui si respira l’atmosfera morbosa e perturbante dei nostri thriller di una volta.

Attendo The strange color of your body’s tears (che già dal titolo promette bene), scritto e diretto dalla coppia di Amer, presentato di recente al festival di Locarno.

Cosa si salva di Tulpa? Una cosa sola, forse la più terrificante del film: il transessuale che apre la porta del club accogliendo gli ospiti con calore senza pari. Tipo Lurch della famiglia Addams vestito in guepierre di lattice, e con le tette.

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