6 days, la recensione di Matteo Marchisio dell’action-thriller diretto da Toa Frazer

Lo stallo dei siege movie in cui i cattivi sono asserragliati in un edificio governativo riempie sempre gli occhi. Se poi l’ambientazione coinvolge l’assalto all’ambasciata iraniana a Londra il 30 aprile 1980, la prima incursione ufficiale dei SAS nel loro territorio nazionale, le tensioni del Commonwealth con l’Iran dello Sha e l’infinito puzzle di intrighi politici internazionali di quasi quarant’anni fa, in teoria dovrebbe esserci materiale in abbondanza per dare al pubblico un bel thriller.

Purtroppo 6 Days rimane un film tiepido, vittima di una prevedibilità eccessiva che lo fa arrancare a una sufficienza non piena e non raggiunta per meriti del tutto visibili.

Dal punto di vista puramente narrativo quando ci si ispira a eventi avvenuti e conclusi da decenni, è chiaro che la trama abbia maglie molto rigide.

L’operazione Nimrod, così fu chiamata e rimase nelle negli archivi di storia militare la liberazione degli ostaggi dall’ambasciata in South Kensingthon, fu uno dei primi casi in terrorismo internazionale in cui polizia, reparti speciali e stampa si trovarono a far fronte contro un tipo di guerra, all’epoca, poco nota nei paesi occidentali. Letteratura in merito se ne trova a tonnellate, così come sull’innovazione dei SAS in fatto di antiterrorismo, i primi a sviluppare tecniche di combattimento ed equipaggiamenti specifici per crisi del genere, ai tempi pura fantascienza.

Tanto background quindi, per un film che invece applica in modo banale il copia incolla di una qualsiasi puntata di un qualsiasi poliziesco americano in cui i cattivi si sono chiusi in un edificio e vogliono qualcosa: la scansione temporale definita, un paio di tentativi di assalto fallito, qualche arabo che parlotta e\o piagnucola al telefono e i SAS capitanati da Billy Elliot che ha appeso le scarpe da ballo al chiodo e impugnato l’Mp5.

6 Days è un B-movie quindi, buono per passare una serata. Eppure il trailer prometteva qualcosa di davvero intrigante.

Le facce più conosciute risultano loro malgrado buoni caratteristi sfruttati in modalità “devo-pagare-le rate del mutuo”, costretti a interpretare ruoli senza sfaccettature, più concentrati a calcare l’accento inglese che dare vera profondità a chi dovrebbero impersonare.

Jamie Bell trasuda testosterone, gomma da masticare in bocca e maschera antigas sulla fronte, ma si ferma a battute da yankee. Poteva almeno ispirarsi allo charme del cap. Price di Call of Duty, ma nulla.

Mark Strong fa la sua parte vestito da negoziatore con tanto di tono paternalista e mogliettina in lacrime a casa.

Abbie Cornish. Bella, nulla da dire. Questo imprescindibile punto fermo della nostra esistenza l’avevamo già capito da Sucker Punch. Ma perché sembri piegata da seri problemi di stipsi nei pochi minuti in cui deve fare la reporter della BBC nessuno lo capirà mai, fortuna che la cosa emerge maggiormente nella versione in inglese e da noi sarà vista pochissimo.

Ma non tutto è perduto. Due dettagli, magari non cercati ma presenti fanno guadagnare la risicatissima sufficienza.

Primo. La giacca mimetica con il pattern rodesiano del comandate dei SAS.

Secondo. Il baffone degli operatori SAS. Pura prepotenza, un’icona di stile che è rimasta ancora oggi come tradizione in uno dei corpi scelti migliori del mondo. Top.