Adagio, la recensione di Matteo Strukul del film di Stefano Sollima in concorso all’80a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Aspettavo con una certa impazienza Adagio, il nuovo film di Stefano Sollima. Non ero rimasto particolarmente entusiasmato dalla sua parentesi americana – un po’ incolore Sicario, seppur tecnicamente sontuoso, ugualmente senz’anima la serie ZeroZeroZero talmente pasticciata nella scrittura da farmi smarrire il senso e il significato della storia – ma avevo amato alla follia la serie tv di Romanzo criminale, mi era piaciuta Gomorra e poi Suburra mi aveva davvero mostrato una via cinematografica italiana al noir sociale ed epico.
Ma lì, e il riferimento non è cosa da poco, Sollima partiva da una struttura molto chiara – i romanzi di Giancarlo de’ Cataldo (Romanzo Criminale e Suburra, questo secondo con Carlo Bonini) – o perlomeno da un universo precisamente definito e raccontato, come in Gomorra di Roberto Saviano.
- Photo by Andrea Andreetta
In Adagio non c’è un romanzo o anche solo un saggio di riferimento, e questo non è certo un male in sé, ci mancherebbe, ma la sensazione è che il materiale narrativo sia di minor qualità e quantità.
Al di là del fatto che ci domandiamo sinceramente se davvero fosse necessario ancora una volta avere a che fare con membri o ex membri della banda della Magliana, dopo che Sollima pareva aver già ampiamente sviscerato il tema, la storia è presto detta.
Il film
In una Roma vagamente distopica – fuochi divampano all’orizzonte per tutto il film tornando ciclicamente a costellare il racconto – un ragazzo viene mandato in un locale a fotografare un personaggio non meglio identificato, allo scopo evidente di ricattarlo.
Montagne di cocaina, travestimenti bizzarri e giovani prostituti classificano la situazione come ambigua. Scoperto che il locale è monitorato da telecamere nascoste, il ragazzo scappa, lasciando il lavoro a metà. Chi lo ha incaricato è ora sulle sue tracce e non ha intenzione di lasciarlo in vita.
Senza dire di più, osserviamo che il racconto si dipana da quel momento in modo alquanto prevedibile, banale, inutilmente violento. Non rivelerò i pochi, telefonati colpi di scena, non mi dilungherò sulla lentezza a tratti esasperante del film, la mancanza di ritmo, una certa qual piattezza dei personaggi, quasi esclusivamente maschili, per giunta.
Gli attori sono tutti di prima categoria, questo va detto, e l’interpretazione migliore è, a mio avviso, di Adriano Giannini che viene troppo poco spesso utilizzato nel nostro cinema e meriterebbe ben altro spazio. Onore quindi a Sollima per la scelta ma, pur apprezzando anche Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Toni Servillo, a mancare è tutto il resto.
Non basta il global warming
Non basta nemmeno il rimando al surriscaldamento globale – il caldo insopportabile, i roghi all’orizzonte – a regalarci un secondo livello di film perché l’idea è giusto accennata, gettata lì a tratti come uno straccio bagnato in sceneggiatura.
La sensazione è che a Stefano Sollima manchi – ormai da un po’ – una storia intensa e ben scritta, capace di sostenere la sua formidabile visione di cinema. In mancanza, i suoi film divengono magniloquenti e ridondanti, smarrendo emozioni e tensione narrativa.
Forse, una buona idea potrebbe essere, per una volta, abbandonare i fin troppo frequentati microcosmi criminali per approdare a qualcosa di nuovo. Una vacanza da bande, gang, famiglie, cupole per misurarsi con qualcosa di diverso: l’avventura, lo storico, il western? Non ne ho idea ma il continuo avvitarsi del regista in questo storytelling poliziesco-noir a lungo andare mostra la corda.