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Quel pomeriggio c’era una fitta nebbia sui colli. Gionazi, alzandosi dal letto, contemplò lo spettacolo bianco dalla finestra, lo stesso al quale aveva assistito in tutti i suoi trent’anni compiuti proprio quel giorno. Una sfilza di bestemmie accompagnò i suoi movimenti.

Si vestì velocemente senza lavarsi con gli stessi abiti usati da una settimana. I Wrangler stretti, le Doc Martens a dieci buchi nere chiazzate di fango, una maglietta rossa con sopra stampato il numero “88” in nero su cerchio bianco e un bomber nero pieno di toppe che parlavano d’odio. Nella tasca del giubbotto infilò un sacchetto di carta con dentro un oggetto pesante.

Aveva appuntamento con Emanuele Spaggiari detto Cicoria e Francesco Delle Donne, i suoi due soci di qualche anno più giovani, che lo aspettavano al bar. Controllò l’orologio. Era già in ritardo di un’ora. Era sicuro di trovarli ancora quei due. Insieme erano i tre temuti skinheads del paese, i bulli. Sempre bestemmiando uscì dal l’appartamento dove viveva con i suoi, congedandosi da loro con un grugnito senza sentimento.

Salì sulla vecchia Alfa Sud Sprint, il cui colore si confondeva con il cielo di quel giorno. Il freddo umido gli graffiava la pelle: uno dei finestrini laterali non c’era più, sostituito – temporaneamente diceva lui, anche se erano passati sei mesi – da un foglio di cellophan attaccato con l’avana.

Gionazi si chiamava Giovanni Nazareni. Il soprannome lo ottenne sul campo. Faceva parte di un’organizzazione di estrema destra fino a qualche tempo prima, era uno in vista nel movimento. Ma la sua passione per le puttane nigeriane e senegalesi della Pontebbana gli fece guadagnare un’espulsione oltre a qualche calcione in culo, i camerati non apprezzavano quella sua degenerazione.

Nonostante ciò non si perse mai d’animo. Trovò due giovani ultrà leghisti, il Cicoria e Delle Donne, e riprese alla grande l’attività xenofoba nel loro paesino. La devozione per le nere gli rimase però. Lui le chiamava “idoli d’ebano”, nello stesso modo di suo nonno che s’era fatto la campagna d’Africa e gli magnificava le gioie delle donne scure. Parcheggiò l’Alfa grigia davanti al Bar tabacchi Cacciaguerra e raggiunse i due compari.

“Eccovi qui – disse Gionazi – sempre a bere crodini!”, “Ciao Gio’, e tanti auguri. Ce ne hai messo di tempo, troppe seghe ieri sera?” – gli rispose ridendo Delle Donne. Lo incenerì con lo sguardo. Non gli piacevano quel genere di confidenze. “Ci dovevi parlare di una cosa hai detto – ruttò il Cicoria – ma prima offrici da bere”. Andò al bancone e ordinò tre Tennent’s Super. Si sedette anche lui poggiando le pinte sul tavolo che non conosceva pulizia, unto, sporco, pieno di caccole attaccate e macchie. Nel locale c’erano solo loro tre, la Geraldina, proprietaria del posto, e Rinaldo, un vecchio ubriacone che faceva smorfie contro il suo riflesso nello specchio del mobile bar. Fece cenno ai due di avvicinarsi e iniziò a parlare a voce bassa.

“Allora, lo sapete che tutta l’estate scorsa ho lavorato con l’impresa di pulizie del Marconi, vero? Be’, una delle case dove andavamo a pulire è quella del conte Sciacchitano. Avete presente, con il grande giardino che è dall’altra parte della collina dei vigneti del Rizzotto”. “Sì”, risposero all’unisono i due con la stessa espressione di un vitello. “Bene allora – proseguì – ho osservato il conte e conosco le sue abitudini. Noi stasera andremo a ripulirlo, perché è ricco sfondato. E’ vecchio, è sulla sedia a rotelle e non può né parlare, né muoversi, non può fare un cazzo. In casa non ci sono allarmi. Ha solo due di quei cani piccoli e bruttissimi, quindi siamo a posto. Con lui abitano solo i domestici, marito e moglie, sono mangianoccioline. Cinesi o sa il cazzo”.

“Ma che dobbiamo rubare? Oggetti, soldi? Sai dove tiene il malloppo?”, chiese Delle Donne. “Oggi è mercoledì”, rispose. “Vuol dire che il vecchio bastardo stamattina ha mandato il mangianoccioline maschio a prendergli una busta in banca. Molto grossa e molto piena. Di sicuro ci sono bei soldi perché il mercoledì arrivano i fornitori e pagavano anche noi, sempre dopo che il servo era tornato dal paese con la busta. Manderemo il cinese a prendere la grana mentre io punterò questa – cacciò dalla tasca la busta di carta e mostrò l’impugnatura di un revolver – in testa al vecchio merdoso e alla donna del cina. Cicoria, tu ruberai qualche oggetto di valore che è nel salone. Ci sono soprammobili in avorio che so dove piazzare, prendi quelli e poco altro, ok? In un quarto d’ora saremo fuori di lì. Anche meno se non fate una delle vostre puttanate. Nessuno si farà del male perché in quella casa non ci sono eroi ma solo tre stronzi deboli e impauriti. Sarà una cosa semplice”.

“Gio’ ma proprio stasera? Perché non ce l’hai detto prima?”, fece il Cicoria. “Non vi ho detto un cazzo perché siete due mongoplegici di merda e non volevo che vi scappasse qualche parola dalla vostra bocca da cessi quando siete ubriachi”, ringhiò di risposta.

“Ora finite le vostre birre e andiamo, che si sta già facendo tardi. Stasera a colpo terminato ce ne andiamo a troie e festeggeremo il mio compleanno”. “Giò”, pigolò nuovamente il Cicoria, “Una cosa è andare a far scritte sui muri contro teroni, slavi e marocca, un’altra è fare una rapina. Ci metteremo nei casini!”.

Il capobanda lo guardò di traverso. “Devi smetterla di rompere il cazzo e crescere, hai capito?”, lo ammonì. L’altro si chetò subito e si mise a cercare qualcosa d’inesistente nel fondo della sua pinta.

In un paio di sorsi scolarono le birre, e quando fu ora di cena, annunciata dalla sigla del TG1 del nuovo LG al plasma del bar che nel frattempo si era riempito di pensionati e sfaccendati, salirono in macchina. Senza fretta si diressero verso la casa del conte Sciacchitano, distante una quindicina di chilometri, immersi nel biancore. Gionazi porse loro una busta di plastica con dentro delle calze di nylon che dovevano calarsi sul viso per non farsi riconoscere e parlò: “Mascheriamoci e cerchiamo di non chiacchierare troppo. Non fate nomi o vi ammazzo! Accuseranno dei rumeni o altra feccia levantina se non facciamo casini”.

“Ma questo vuol dire che ora ci mettiamo a fare le rape?”, ricominciò con tono piagnucoloso il Cicoria, seduto di dietro, sempre meno convinto. “Questo vuol dire, mongoplegico che non sei altro, che tu fai come ti dico e stai zitto”, gli soffiò il capoccia, “Vuoi continuare a insultare le talebane e le negre nel parcheggio del centro commerciale? Vuoi disegnare svastiche sui muri della scuola elementare a vita? E’ questo che vuoi?”.

“Cicoria sempre a rompere i cosiddetti”, gli fece eco Delle Donne, “Basta con le puttanate da ragazzini. Il prossimo mese prendo l’ultimo assegno di disoccupazione e un extra mi serve più del pane”.

“Ma io non voglio ammazzare la gente!”, continuò Cicoria. “Nessuno si farà male. E se ci va bene”, riprese Gionazi, “Possiamo studiare anche altri colpi sicuri qui vicino. Adesso fa’ il muto e stai pronto”. L’auto mangiava lenta la strada sulle colline. Il loro paesino in lontananza era a malapena visibile, “Disteso come un vecchio cancheroso addormentato da dosi massicce di morfina”, canticchiò allegro Delle Donne, lo spiritoso del trio.

Mollarono l’Alfa Sud a un paio di chilometri dalla villa, in una radura che stava a fianco della strada per non farla vedere da qualcuno di passaggio. Era una precauzione inutile. A quell’ora di lì non passava un cane, “Ma meglio non correre rischi quando si è preparato un colpo così perfetto”, sentenziò Gionazi parcheggiando. Poi aprì il cofano e tirò fuori tre camici grigi. “Dobbiamo indossarli per non farci riconoscere dai vestiti”, li informò. Subito dopo scarpinarono in mezzo al nulla calpestando le foglie cadute intrise di umidità e in venti minuti arrivarono al cancello della villa.

“Come si entra?”, chiese il Cicoria. “Come Sergey Bubka”, rispose ghignando Delle Donne. Poi vide la faccia inebetita del compare e gli fece cenno di lasciar perdere. “Scavalchiamo”, sospirò Gionazi, “Oppure preferisci suonargli il campanello?”. “Saranno tre metri di inferriata!”, frignò il Cicoria, che era grasso e il massimo dello sport che aveva fatto in vita sua era fare andare su e giù il polso quando era in bagno.

Gionazi alzò gli occhi al cielo, bestemmiando contro il suo santo patrono. “Ma che ho fatto di male per trovare un mongoplegico come te! Va bene, tu aspettaci fuori, dietro quella siepe, ti apriremo il cancello quando siamo dentro. Mi raccomando tieni chiusa la fogna e non farti vedere da nessuno o vengo fuori e te spaco a boca! E mettiti quella cazzo di calza in faccia”.

Assieme a Delle Donne si arrampicò agilmente sul freddo ferro battuto. Arrivati in cima, Delle Donne si lacerò la mano sinistra sul metallo appuntito. Gli scappò un urlo che rimbombò nella notte caliginosa. “Che cazzo ti berci!” sibilò il capo – “Vuoi farci scoprire, pezzo di mongoplegico?”.

L’altro gli rivolse un’occhiata colpevole. Saltarono giù con un tonfo sordo, atterrando sul tappeto d’aghi di pino bagnati del vialetto d’ingresso. Il Cicoria, nascosto dietro la piccola siepe, non vedeva niente e sentendo quel trambusto maledisse il momento in cui aveva dato retta a Gionazi. Non era un cuor di leone. Sapeva essere spavaldo solo in compagnia degli altri due, alti, forti e atletici. Lo chiamavano Cicoria perché non valeva niente. Iniziò a tremare desiderando di essere a casa a guardare la replica del Grande Fratello.

Intanto gli altri due erano arrivati al portone della villa. Dalla finestra videro la domestica che prendeva i piccoli cani del conte e li portava al primo piano, nella camera da letto padronale. Sciacchitano era sulla sedia a rotelle di fronte al caminetto acceso. Il cameriere gli imboccava la minestrina. Indossarono la calza e rimasero parecchi minuti in attesa, muti, nel buio.

“Come entriamo?”, chiese a gesti Delle Donne. “Dal retro”, rispose con un movimento semicircolare della mano il capo. Rapidi, si mossero verso una piccola porta di servizio. Con la tessera del videonoleggio, Gionazi fece scattare la serratura. In un attimo passarono dal gelo penetrante del giardino al tepore del piccolo magazzino della cucina. Delle Donne prese uno straccio pulito da un ripiano e si coprì la mano sanguinante. Il taglio era brutto e profondo. Gocciolava sul marmo a scacchi magenta e crema del pavimento.

Entrarono, silenziosi come i fantasmi che si diceva che vivessero in quel posto, nel grande salone della villa proprio mentre Adoraciòn, la domestica, stava scendendo lo scalone. Si accorse degli intrusi e cacciò uno strillo. Delle Donne si precipitò verso di lei bestemmiando e, dopo averla afferrata per i capelli le puntò un taglierino alla gola.

“Zitta brutta scimmia o ti sgozzo!”, le intimò. Con un balzo, Gionazi corse verso il vecchio. Estrasse la pistola e la puntò in testa a Sabino il cameriere che, sorpreso, fece cadere il piatto pieno a metà sul pavimento, mandandolo in frantumi.

“Fermi ora!”, disse con decisione. “Mangianoccioline di merda, non fiatare o ti ammazziamo, a te, alla tua troia e al vecchio invalido. Sei stato in banca stamattina?” Sabino rispose di sì con la testa. “Benissimo. Stammi a sentire scimmia: ora vai a prendere la busta della banca. Non fare cazzate, so che la chiudi nella cassaforte dello studio. In fretta o vi apriamo un altro buco nel culo! Capito? Rispondi merda!”.

Il cameriere fece un’altra volta cenno di sì. Era spaventato e sudava. Il rapinatore spostò la pistola in testa al suo padrone. “Vai di corsa allora, scimmia!”, gli urlò. Sabino si alzò di scatto e si mise a correre verso il piano superiore. “Non fare scherzi o ammazzo tutti, hai capito, cazzo?”, sentì urlare l’uomo che lo aveva minacciato.

“Come si apre il cancello?”, disse Delle donne rivolto ad Adoraciòn. Lei non rispose, fissava tremante il taglierino a tre centimetri dalla sua giugulare. “Tu capire mia lingua? Di dove sei, scimmia di merda?”, riprese l’uomo premendogli la punta dell’oggetto affilato sul collo. “Sì! Sì! Parlo italiano. Sono… siamo peruviani. Il cancello si apre con il pulsante bianco grande che è di fianco al portone…”.

“Ma non avevi detto che erano cinesi?”, domandò Delle Donne al capo. Questi rispose furioso: “Ma che cazzo di differenza ti fa, cinesi, peruviani, marziani? Ti ci metti anche tu a rompere le palle?”, e sempre tenendo puntata la pistola contro il vecchio inoffensivo, che non sembrava neppure essersi accorto della rapina, andò ad aprire al terzo socio.

Era almeno un quarto d’ora che il Cicoria aspettava. Si sentiva impazzire dal nervosismo e aveva pensato più volte di andarsene.

Il “clack” dell’apertura del cancello fu una deflagrazione in quel silenzio polare. Udendo il rumore, ebbe un sussulto e si pisciò addosso, letteralmente. Sulle prime aveva pensato a uno sparo, poi realizzò che i suoi amici gli avevano aperto. Sentiva il liquido caldo inondargli i jeans. Maledicendo l’universo, si alzò e sparì nel vialetto che conduceva alla villa chiudendo il cancello sferragliante.

“Eccoti qui”, lo accolse con un sorriso malvagio Gionazi, “E’ passato qualcuno per strada?”. “No, nessuno”, rispose l’ultimo arrivato. Si accorse della chiazza scura sul camice. Si domandò se gli amici l’avrebbero fatto salire in macchina. “Forza, muoviti culo flaccido. Raccatta i soprammobili d’avorio. Sono su quella libreria di fianco allo scalone. Forza, svejate!”, fu esortato dal compare.

Si mise di corsa a prendere gli oggetti, buttandoli nel sacco di juta che aveva con sé. “Hei!”, ricominciò Gionazi rivolto al socio sulle scale, “Forza, porta quella puttana gialla qui, che la mettiamo vicino alla vecchia merda. Così se quel coglione tarda ad arrivare vai su a controllarlo”. Delle Donne, sempre tenendo stretta la donna, andò a mettersi vicino all’amico.

Il Cicoria infilò l’ultimo pezzo d’avorio lavorato nel sacco. Si girò a guardare il capo in attesa d’ordini e disse: “Sembra proprio la casa di Scarface con le scale grandi!”, cercando di fare un sorriso sbilenco. Gionazi, sempre più sconsolato, gli rispose che la villa era un capolavoro di fine Settecento e “Non c’entra un cazzo con le tamarrate di un narcos cubano”.

Il Cicoria, come stordito dalle spiegazioni del compare, annuì brevemente con la testa e tartagliò qualche stronzata compresa solo da lui. Gionazi intanto guardava le scale in attesa del domestico che tardava ad arrivare. “Bisogna andare di sopra”, disse infine, “La scimmia ci sta mettendo troppo tempo”. “Avrà chiamato la polizia! Siamo fottuti!”, gemette Il Cicoria. “Chiudi la fogna ho detto!”, abbaiò il capo,”Di sopra non c’è nessun telefono e i loro cellulari sono qui”.

Proprio in quel momento si udì uno schianto metallico provenire dal piano superiore. Il Cicoria era diventato blu dallo spavento, con gli occhi sbarrati, paralizzato accanto alla libreria. Questa volta si cagò sotto e la sua diarrea fece un lago sul marmo della sala, ma non se ne accorse nessuno dei presenti, forse neppure lui; Gionazi si irrigidì puntando la pistola contro la testa di Adoracion. “Tu!”, disse a Delle Donne, “Ci stiamo noi qui con questi due! Corri di sopra a vedere cosa succede, picchia quel mongoplegico e scendi coi soldi! Forza muoviti, per dio!”.

Delle Donne fece cenno di sì con la testa e si mise a correre in direzione delle scale. Passò accanto al Cicoria e scivolò di brutto sulla pozza di merda lasciata da quest’ultimo. Cadde malamente di faccia, andando a sbattere con gl’incisivi, frantumandoseli sul marmo sporco di fluido giallo e marrone. Perse i sensi.

“Ma che cazzo di imbecille!”, si mise a urlare Gionazi, “Come cazzo si fa a inciampare in quel modo!”. Dopo un secondo dalla cima delle scale comparve Sabino. Brandiva un enorme spadone, preso da una delle armature dello studio. Urlava frasi incomprensibili. Aveva un’espressione folle in volto e si muoveva goffo con la pesante arma. Gionazi lo guardò incredulo.

“Cicoria vieni qui”, poi disse, “Vieni a tenere d’occhio questi due. Ti lascio la pistola. Alla scimmia lassù ci penso io!”. Prese il lungo e appuntito attizzatoio del caminetto e si diresse a passi svelti verso il peruviano, mentre l’altro prendeva il suo posto accanto alla donna e al vecchio.

I due spadaccini iniziarono a battagliare. Le stoccate del neonazista erano veloci e dirette verso gli arti dell’avversario, e un paio di volte riuscì a pungolarlo alle gambe facendo uscire piccoli fiotti di sangue. Da piccolo aveva fatto un po’ di scherma e non aveva perso l’abilità. L’altro invece era come un pupo siciliano manovrato da un burattinaio sotto effetto della mescalina. I suoi ampi fendenti erano sempre parati dall’attizzatoio.

“Cazzo credi di fare scimmia bastarda”, gli urlava con la bava alla bocca, “Ora ti rimando sull’albero, stronzo!”. L’altro gemeva e menava colpi sempre più disperato. “Ah-ah! Ti ho preso!”, esclamò Gionazi infilzandolo in piena coscia, “Ora molla il ferro o ti riduco a un hamburger”. L’altro urlò “Va’ a fanculo!”, e con un estremo sforzo riuscì a dargli una forte botta in testa con la spada, di piatto, centrandolo sull’osso parietale proprio sopra l’orecchio sinistro. L’attizzatoio gli cadde dalla mano e rovinò sulle ginocchia. “Spara! Spara a questo pezzo di merda prima che mi ammazza!”, urlò rabbioso al Cicoria. Un grosso bernoccolo viola gli si stava formando sul cranio rasato a zero, era ben visibile dove aveva ricevuto la botta perché la calza si era strappata.

La rivoltella, un vecchio arnese arrugginito, si era inceppata. Il Cicoria continuava a premere il grilletto, ma a parte i “Click! Click!” a vuoto non faceva nient’altro. Sabino continuava a tempestare a colpi di spada la schiena del suo socio, che ora era a terra e gemeva. Ci stava mettendo sempre più forza. Se avesse usato la parte tagliente lo avrebbe fatto a pezzi. “E’ inceppata! Cazzo, maledizione, fai qualcosa o questo mi maciulla!”, gli diceva Gionazzi. “Sì Gio’!”, rispose allora. Ma non sapeva che cosa fare. Non aveva mai toccato un’arma. Si rivolse la canna verso il viso, fece girare il tamburo e con il dito tremante per la tensione premette senza volere il grilletto.

La pallottola lo raggiunse all’attaccatura sinistra della mandibola, proseguì la sua corsa portandogli via mezzo orecchio e si piantò definitivamente nel muro, a tre centimetri dal ritratto a olio di un donnone dall’espressione arcigna. Il Cicoria prese a farfugliare, più sorpreso che spaventato, mentre dalla bocca e dalla ferita uscivano sangue e fumo. Pensava di essere morto, mentre in realtà si era compromesso per sempre la facoltà di parlare e masticare come prima. Rimase privo di coscienza accanto alla sedia a rotelle dove il vecchio era immobile, pallido e muto come una delle tante statue della villa. Aveva ancora il vecchio catenaccio fumante in mano.

Gionazi intanto era riuscito a sottrarsi alla tempesta di colpi di Sabino. Si alzò in piedi e gli diede un pugno alla bocca dello stomaco. Il domestico cadde sbuffando con il culo sul pavimento. S’infilò nello studio bestemmiando come Germano Mosconi. Vide la busta della banca sulla scrivania ingombra di carte. Notò che era piena più del solito. La prese e la aprì.

Dentro non c’erano soldi. Solo documenti. Il vecchio ogni mercoledì mandava Sabino a fare versamenti in banca. Beneficienza. C’erano le ricevute dei bonifici all’Unicef, Save the Children, assegni per le adozioni a distanza in Africa, in Perù, Indonesia.

Sciacchitano non aveva figli e distribuiva le sue ricchezze ai poveri. “Ai negri di merda!”, urlò Gionazzi con le lacrime agli occhi strappando le carte. “Dove cazzo sono i soldi, pezzo di merda?”, strepitò con voce rotta a Sabino, a terra dolorante a pochi passi da lui, “Ti ho detto di portarmi i soldi, mongoplegico!”. “Tu ha detto busta, io presa busta! Va’ a fanculo!”, tossì il domestico. In quel momento sentì le sirene che si facevano strada nella notte bianca. Dirette verso la villa. Dirette verso di lui. Adoraciòn aveva chiamato i carabinieri.

Lo stomaco gli si serrò in una morsa. Il panico gli fece ricordare la scala subito fuori dal balcone della camera del conte. Conduceva al giardino. Sarebbe scappato di lì e con un po’ di fortuna, se la fortuna gli avesse voluto restituire un favore quella notte maledetta, poteva farla franca.

Non l’avrebbero beccato gli sbirri, non il giorno del suo compleanno almeno. Uscì dallo studio di gran carriera. Entrò nella camera da letto spalancando la porta. I due bouledogue francesi del conte, Lele e Mora, eccitati dai rumori sentiti fino a quel momento, gli saltarono addosso ringhiando. Uno gli piantò le fauci nel didietro, l’altro nelle palle.

I carabinieri entrarono nella stanza due minuti dopo e lo trovarono mentre lottava per liberarsi dei due mostri e ringhiava più forte di loro.