American Crime, la nuova serie tv creata e diretta da John Ridley che è già diventata un cult oltreoceano
C’è una nuova serie tv statunitense che, dopo solo pochi episodi, sta già facendo parlare molto bene di sé, tra i critici e gli addetti ai lavori, ma anche tra il pubblico, che la segue e la commenta sui vari social network con il trasporto che solitamente si riserva agli show di culto o destinati a divenire tali.
Parliamo di American Crime, serie antologica dai temi drammatici, iniziata i primi di marzo sulla ABC.
Creata, in gran parte scritta e in alcuni episodi diretta da John Ridley, romanziere e sceneggiatore cinematografico e televisivo, premio Oscar per la sceneggiatura di 12 anni schiavo.
La prima stagione sarà composta da undici episodi. La trama di questa prima serie segue il susseguirsi di eventi, le implicazioni e le ramificazioni post-omicidio di un giovane veterano di guerra, Matt Skokie, ucciso in casa sua da dei ladri, che hanno anche aggredito e ridotto in coma la moglie Gwen.
La particolarità della serie, rispetto ai classici procedural e ai vari telefilm di investigazione, sta nell’usare l’evento criminoso come punto di partenza per un’analisi della società – americana e non solo – a 360 gradi, esplorando, attraverso il dipanarsi delle indagini e del processo che ne segue tutta una serie di aspetti, visti attraverso il punto di vista dei familiari delle vittime e dei sospettati e indagati, inerenti le differenze di classe, di razza, di religione e gli aspetti politici e sociali della vita di tutti i giorni.
Se la qualità della scrittura è indubbiamente notevole, con l’imprinting di John Ridley (mai troppo apprezzato come scrittore pulp-noir quando invece ha scritto pagine di assoluto valore) a rendere uniforme tutto l’insieme, nonostante la molteplicità di punti di vista, non è un mistero che quanto ad attori gli americani, anche nelle serie tv, sanno sempre stupire.
Il loro è un parco di caratteristi e talenti poco celebrati praticamente infinito, tanto che nel giro prima o poi tutti hanno la loro grande occasione, fosse anche solo una scena o un monologo o due battute nel tale episodio della tale serie.
Gli attori americani sanno quando il materiale a disposizione è qualcosa di speciale e allora ne fanno tesoro, innalzando l’asticella delle loro performance.
È anche il caso di questa serie, che vede tra i protagonisti nomi come Timothy Hutton, che ritrova lo smalto delle sue prove migliori, nei panni del padre della vittima (e la sua scena del riconoscimento del cadavere, intelligentemente girata da Ridley senza dettagli né morbosità, è di grandissimo impatto emotivo), Felicity Huffman, ormai da tempo smessi i panni di casalinga disperata, è la sua ex moglie, personaggio reso con sottigliezza dalla bravissima interprete, capace di dar vita a ogni sfumatura di una donna risoluta e ferita, motivata e dalla parte del figlio fino alla sgradevolezza, all’ottusità razzista e alla negazione dell’evidenza.
La coppia dei genitori di Gwen è invece formata da W. Earl Brown e Penelope Ann Miller, il primo spiccava già in Deadwood, la seconda in Carlito’s Way, entrambi hanno alle spalle decine e decine di ruoli sia al cinema che in tv.
Altro pezzo da novanta del cast è Benito Martinez, il capitano Aceveda di The Shield, visto anche in Sons of Anarchy e di recente in House of Cards, oltre che in quasi tutte le più note serie tv e in qualche film di rilievo come Million Dollar Baby o Saw – L’enigmista.
Nel terzo episodio è apparsa anche Regina King, come la sorella di uno dei principali sospettati dell’omicidio, convertita all’Islam.
Quello che maggiormente colpisce della serie e del suo progredire è come sia strutturata in maniera precisa e millimetrica, ogni tematica viene ripresa nel successivo episodio e vengono aggiunti nuovi spunti, persone e argomenti vengono messi in discussione, lasciando capire allo spettatore che c’è molto di più di quello che sembra.
Anche la regia è ottima, tra le migliori viste di recente sui network Usa, e anche qui Ridley traccia le linee guida, con una macchina da presa sempre sugli attori ma mai invasiva, anzi spesso invisibile come da dettami del cinema classico, attenta a cogliere sfumature e dettagli che altrove vengono trascurati e capace di comporre inquadrature di grande eleganza formale che arricchiscano la storia con quello che i dialoghi non arrivano a dire, come nel confronto scontro tra il padre e la figlia di origini messicane con lei che accusa lui di voler essere bianco nel profondo, o come nella visita in carcere a Carter da parte della sorella, dove anche il semplice campo/controcampo è reso in maniera brillante e incisiva.
Ma è la questione morale a fare da vero perno dell’intera vicenda e della serie, il confine tra le vittime e i colpevoli è sempre più labile, in American Crime non ci sono buoni e cattivi, tutti sono cattivi in un certo senso, tutti hanno un peccato che grava su di loro e cova sotto la cenere pronto a riprendere vigore non appena una scintilla riapre certe ferite.
Soprattutto, nell’interessante e mai banale molteplicità di punti di vista messa in scena, a colpire è quella riguardante i parenti delle vittime: quanto siamo sicuri di conoscere davvero chi ci circonda, i nostri cari?
Ambientata a Modesto, California, ma girata a Austin e a San Marcos in Texas, a una prima occhiata la serie potrebbe anche non sembrare niente di che, abituati come siamo ormai ai serial dei canali via cavo e alle loro tematiche scottante rese nelle maniere più libere e originali.
Ma per un canale pubblico come la ABC quella di American Crime è una piccola rivoluzione, perché vuole sfidare sullo stesso terreno i mostri sacri come HBO, AMC, FX e compagnia bella.
E lo fa egregiamente, col respiro di un grande romanzo, le potenzialità per una serie duratura, complessa e sfaccettata, capace di rinnovarsi stagione dopo stagione, nelle tematiche come nei punti di vista.
Per ora riesce ad ancorare saldamente alla realtà quello che racconta, dando in pasto al suo pubblico uno sguardo diverso su un caso che potrebbe essere uno di quello che i vari Tg h24 sciorinano con sensazionalismo, voyeurismo e faciloneria.
E, ovviamente, anche se parla della società americana e il titolo non dà alcun dubbio in tal senso, ciò che racconta è universale, perché legato ad emozioni e sensazioni umane capaci di coinvolgere chiunque in tutto il mondo, come nelle intenzioni del creatore John Ridley, approcciato da Paul Lee, capo del network dove lo show va in onda, che gli ha dato carta bianca nel realizzare un prodotto che scardinasse le regole e gli schemi rigidissimi della rete pubblica.
La sensazione è quella di essere di fronte a un qualcosa che una volta finito offrirà un quadro d’insieme ancora più potente e ricco di significati, che andrà a aumentare le fila dei serial visti in modalità binge-watching, così come, stando almeno a quanto visto finora, c’è anche da dire che gli Emmy troveranno qui del materiale di assoluto valore, tanto nella scrittura e nella confezione quanto soprattutto nelle interpretazioni.
Le critiche positive sono già fioccate un po’ ovunque, vedremo se se le ricorderanno quando arriverà la stagione dei premi.
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