Animal Kingdom di Daniel Michod
Nel panorama dei tanti registi che lavorano sulla scena mondiale, la distinzione, netta, tra chi fa semplicemente film e chi, invece, crea cinema – una minoranza, ovviamente – , vale dall’inizio della storia della Settima Arte e, probabilmente, varrà per sempre.
Dopo aver visto la sua folgorante opera d’esordio, si può ben dire che, se saprà non perdersi, Daniel Michod mostra di avere le carte in regola per far parte, con pieno diritto, di quella minoranza di artisti eletti.
Animal Kingdom, premio della giuria al Sundance Festival nel 2010, non è infatti solo la “risposta australiana a Scorsese”, come è stato pur correttamente scritto, ma, più estensivamente, è la risposta aussie al Cinema, quello con la C e tutte le lettere maiuscole.
Quello, per capirci, capace di colpire al cuore lo spettatore, avvincerne lo sguardo ed arricchirne, stimolarne la Visione, del racconto cinematografico, ma, soprattutto, di quello della Vita, come solo le grandi opere – non importa a quale ambito artistico appartengano – sanno e devono fare.
La storia del doloroso, malinconico crepuscolo di una famiglia criminale di Melbourne è lo strumento scelto da Michod per un discorso filosofico ed esistenzialista complesso e profondo, utile alla rappresentazione, con una pietas struggente e commovente, e un notevole senso del drammatico, della sconfortante e disorientante deriva etica della Società e, più in generale, dell’Uomo.
Con una regia sontuosa, misurata e allo stesso tempo intensa, una violenza improvvisa, sgradevole, ma non marcata, che aggiunge solo tragedia e non fa spettacolo, Michod gestisce una messa in scena magistrale e totalizzante che scava nel fluire degli eventi narrati, e nei lancinanti dilemmi e vuoti esistenziali dei suoi splendidi protagonisti, con la crudele efficacia e acutezza del Maestro.
Dalle vicende della famiglia Cody, che sta tentando di uscire definitivamente da un passato di rapine e violenze, proprio mentre la società, con la sua giustizia fredda e burocratica, sta arrivando a presentarle il conto, filtra, in tutta la sua cruda evidenza, l’atavico squallore morale di un’umanità incapace di affrancarsi dalle leggi della giungla e dal suo retaggio animalesco, impossibilitata ad abbandonare l’odioso marchio primordiale che ne incide l’essenza fin dagli albori.
Joshua Cody – un esordiente e convincente James Frecheville, punta di diamante di un cast superbo che annovera, tra gli altri, il sempre ottimo Guy Pearce – , ha appena perso la madre per overdose.
La nonna Janine – una Jacki Weaver da applausi – accoglie il nipote, che non vede da anni, aprendogli le porte della famiglia dalla quale la mamma lo aveva allontanato tanto tempo prima.
Quello che sembra il promettente inizio di una nuova vita per lui, si rivela invece, presto, l’avvio del rabbioso, lugubre epitaffio di molti.
Animal Kingdom dipinge alla perfezione un mondo nero, nerissimo, nel quale le occasionali, fatue luci nella vita dei suoi protagonisti servono ad illuminare, evidenziandoli, i tremendi squarci nell’abisso delle loro esistenze e delle loro anime.
Un mondo avaro di sentimenti positivi e reale calore umano, nel quale il colore più brillante non può che essere il grigio, e nel quale il Male si nasconde proprio dove non dovrebbe avere diritto di asilo – dentro una divisa, dietro il sorriso di un parente – e in cui anche le scelte “alte” – fare la cosa “giusta”, decidere da che parte stare – si risolvono, non può che essere così, semplicemente nel regolare i – propri – conti.
Ne risulta un affresco asciutto e sincero, disarmante nella sua acuta efficacia, un racconto coinvolgente e struggente che va a collocarsi a pieno titolo tra gli scaffali del buon Cinema e, perché no, tra le opere di vero, autentico impegno civile.
Sempre che, naturalmente, questo concetto possa avere ancora un significato attuale e magari destare il reale, urgente interesse che merita.
David Michod, questo è certo, se saprà tenersi lontano da Hollywood e dalle sue tentazioni plastificate e milionarie, di strada ne farà, comunque, parecchia.