APRIL, la recensione di Giacomo Brunoro del film di Dea Kulumbegashvili presentato in concorso all’81 Mostra del Cinema di Venezia.
APRIL di Dea Kulumbegashvili, talentuosa regista georgiana, è in concorso a venezia e probabilmente è un film talmente brutto che vincerà il leone d’oro (e in effetti il film ha vinto il Premio Speciale della Giuria, ma quanto ho scritto il pezzo ancora non lo sapevo!).
Un film arrogantemente anti-commerciale, ipercervellotico, di grande rigore stilistico (non dimentichiamolo!) che racconta una storia di diritti negati in Georgia e che sembra il manuale perfetto del film che vuole farsi notare per intelligenza a un festival (quasi sempre senza riuscirsi peraltro, come in questo caso).
Un’operazione di posizionamento perfetta per Kulumbegashvili che infatti si è portata a casa il suo bel premio, e anche per Guadagnino che ha prodotto il film.
Al centro della storia un ostetrica che pratica anche aborti illegali cercando di aiutare come può le famiglie contadine e disagiate della Georgia rurale. Naturalmente la nostra ostetrica ha una storia conflittuale e tutta una serie di traumi che non è mai riuscita a superare e che vi vengono presentati sia attraverso una serie di spiegoni intollerabili (e fallimentari dal punto di vista narrativo), sia attraverso una serie di metafore involontariamente comiche.
In definitiva la Georgia portata in scena da Kulumbegashvili è un paese sommerso dal fango, un fango reale e concreto, fango che sommerge anche le persone e che diventa una grande metafora di tutta questa storia infelice.
Fin qui la storia, il problema però è come viene raccontata questa storia (il problema è sempre il come, non dimenticatelo), ovvero attraverso inquadrature fisse di dieci minuti su un campo durante una tempesta di pioggia; oppure una bella camera fissa che inquadra una cucina in cui non succede niente; oppure cinque minuti di telecamera fissa su un autolavaggio… insomma, ci siamo capiti.
Ci sono poi tre scene fortissime, ovvero un parto naturale e un parto cesareo ripresi in maniera incredibilmente realistica, e poi c’è 5 fantastici minuti di telecamera fissa su un pene moscio, scena che peraltro non sono riuscito a comprendere molto bene forse perché il mio retaggio patriarcale mi impedisce di cogliere apprezzare certe sfumature.
Spendiamo anche un paio di parole su quello che probabilmente è l’alter ego della protagonista (o come lei sei si auto percepisce, però questa è un’interpretazione libera dato che in sala stampa ci si interrogava su chi o cosa fosse), una sorta di essere mostruoso privo di viso, una specie di vecchia che sembra un po’ un albero e un po’ un essere umano distrutto dalle rughe, con tette e culo cadenti; un personaggio che vaga in spazi indefiniti a botte di 5-6 minuti. Forse vaga non è la parola adatta dato che se ne sta fermo in mezzo allo schermo, o compie movimenti così lenti che sembra comunque fermo.
Tra la pressoché totale assenza di movimenti in macchina e l’altra c’è anche qualche bel dialogo privo di senso in georgiano (da premio oscar quello con l’autostoppista a inizio film, e già lì avevamo tutti capito cosa ci aspettava). Do sottolineare quello tra la protagonista e il suo ex, anche lui un medico (anche lui infelice, traumi, blablablabla): tra domanda e risposta passano ogni volta 50 secondi. Ovviamente telecamera fissa solo su di lei e quindi senso di disagio a livelli altissimo.
APRIL è un film ostico, lo avrete capito, però a onor del vero ho sentito anche un po’ di applausi in sala, perlomeno tra quelli che erano rimasti perché già dopo i primi 20 minuti la gente usciva a frotte dalla sala grande, esodo che è continuato per tutto il film. i
Ma, si sa, la critica intelligentissima ama spesso questi film ipercerebrali, anti mainstream, punitivi per gli spettatori, impossibili da vedere e ricchi di significati (forse un po’ troppo ricchi di significati) e infatti in sala stampa c’era chi ne parlava di un capolavoro, chi ammetteva serenamente di aver dormito per tutto il film e chi invece commentava l’alto prodotto artistico di Kulumbegashvili con peti e rutti generosi.
Io stoico ho resistito fino alla fine perché volevo cercare di afferrare l’incomprensibile. Anzi mi viene in mente quella frase che forse campeggia all’inizio di Conan il Barbaro, credo sia di Lovecraft, che recita più o meno “quando guardi l’abisso devi stare attento perché l’abisso potrebbe guardare dentro di te” (anche se, a pensarci bene, mi sa che la citazione era un’altra, ma ci siamo capiti lo stesso).
Ecco, questo è un film un po’ così, nel senso che tu lo guardi ma in realtà è lui a guardare dentro di te.