Argentina 1985, la recensione di Silvia Gorgi del film di Santiago Mitre in concorso alla 79a Mostra del Cinema di Venezia.

Un pezzo della Storia dell’Argentina entra a Venezia 79 con la pellicola in concorso Argentina 1985: un racconto cinematografico per certi versi con un’impostazione classica che ha il grande merito di ricordare una delle fasi più sanguinose della dittatura argentina. 

Lo fa ricostruendo le fasi di un processo che ha fatto la Storia, e che racconta il periodo della cosiddetta guerra sucia”, il genocidio, avvenuto fra il 1976 e il 1983, in cui numerosi militari si macchiarono di una massiccia violazione dei diritti umani e civili contro la popolazione argentina, e che finì per coinvolgere trentamila fra dissidenti o sospettati tali. La popolazione fu arrestata, detenuta in maniera clandestina, torturata, e assassinata (alcune persone buttate giù da arei dell’aeronautica in volo). 

Santiago Mitre, il regista, ripercorre il processo aperto nel 1985 – produzione di Amazon Studios – e le vicende del pubblico ministero Julio Strassera – un incredibile Roberto Darín – e del suo assistente Luis Moreno Ocampo (Peter Lanzani perfettamente in parte). Insieme a una squadra di giovani avvocati i due procuratori si misero in gioco in un percorso giudiziario più grande di loro, non temendo le ritorsioni e le minacce che durante le varie udienze divennero il pane quotidiano da affrontare insieme all’inchiesta giudiziaria. 

Personaggi empatici

La grande bellezza di questo film è data dalla capacità di far entrare il pubblico in empatia con le vicende dei procuratori, ed è proprio la costruzione dei personaggi, complessi, esseri umani a tutto tondo, in cui attraverso i dialoghi, li impariamo a conoscere, a capire le loro paure, lo stress da gestire, li vediamo all’interno delle loro famiglie.

Fra i personaggi le battute per scaricare la tensione non mancano come sarebbe nella vita di ognuno di noi, quando si affrontano momenti così delicati, in cui prendere decisioni difficili. Ci sono anche attimi in cui cercare di sdrammatizzare, e tutto ciò rende i protagonisti così umani e vicini al pubblico da finire per conquistarlo. Questi tratti anche tragicomici ci fanno amare “i nostri eroi”, toccando nel dramma la commedia.

Nonostante l’ancora notevole influenza dell’esercito, questa squadra, capitanata da Strassera e Moreno Ocampo – che non si lascia intimidire, anche se il processo e l’impresa appaiono come la battaglia di Davide contro Golia – compie l’impresa, che Mitre riporta a noi, con un suo ritmo e con un’emozione crescente che tocca il suo apice con l’arringa finale di Strassera, affinché la Storia possa essere tassello fondamentale nella memoria, affinché gli abomini non accadano mai più. 

E, come si può vedere, anche dai pezzi documentaristici inseriti fra le riprese, il giorno in cui Strassera formulò l’atto di accusa, il boato dell’aula fu grande, l’emozione di coloro che, nel corso di tali nefandezze, perse un proprio caro, fu forte, e le strade si riempirono per festeggiare l’idea che la giustizia potesse essere anche un atto di guarigione.