Aurora nel buio, la recensione di Linda Talato del romanzo di Barbara Baraldi pubblicato da Giunti.
Titolo: Aurora nel buio
Autore: Barbara Baraldi
Editore: Giunti
PP: 528
“Ci sono storie che raccontano di luoghi infestati, di case in cui il male ha messo radici a causa delle tragedie che vi si sono consumate, di spazi che di quel male sono stati ispiratori. I racconti popolari parlano di inspiegabili rumori provenienti da case disabitate, di voci diafane e lamenti trasportati dal vento. Casa Ranuzzi è uno di quei luoghi.”
Con un incipit del genere, ho pensato subito che Barbara Baraldi si era già portata a casa la storia – e il lettore – ma fin troppe volte ho visto esordi spumeggianti e molto ben scritti, naufragati poi in modo patetico a circa metà della storia, tra incongruenze, stereotipi, personaggi deboli e che si contraddicono una pagina sì e l’altra pure, e colpi di scena fini a sé stessi.
Per questo motivo, con Aurora nel Buio – Aurora Scalviati profiler nel buio – primo volume di un dittico edita da Giunti, ho preferito essere prudente, e arrivare fino alla fine prima di dire che, sì, la Baraldi mantiene a tutti gli effetti le promesse e non infrange mai il cosiddetto “patto di sospensione della credulità” che si instaura tra scrittore e lettore.
“In certi luoghi il male si annida come un ospite indesiderato. Come un predatore silenzioso.
Come il ragno che tesse la tela, per oltre vent’anni il male annidato in casa Ranuzzi era rimasto in attesa della sua preda. Fino a oggi.”
Aurora Scalviati, profiler della polizia italiana, rimane ferita a seguito di uno scontro a fuoco, e un frammento di proiettile le resta conficcato in testa, provocandole disturbi bipolari che lei cercherà di dominare attraverso l’uso farmaci e sottoponendosi a sedute clandestine di elettroshock.
Per motivi disciplinari, da Torino Aurora verrà trasferita in una tranquilla cittadina dell’Emilia Romagna, che si rivelerà, però, inaspettatamente piena di segreti mai rivelati e di trame oscure, e tutto prenderà il via dal brutale omicidio di una donna e dal rapimento di sua figlia, una bambina di nome Aprile.
La scrittura della Baraldi lascia il lettore semplicemente a bocca aperta: scorre fluida una parola dopo l’altra, semplice e chiara, ma tuttavia ricca e particolareggiata: sin da subito si ha l’impressione che l’autrice sappia perfettamente ciò di cui sta parlando e padroneggi nel modo più completo ogni aspetto della storia.
Dalle pagine non emerge mai lo stato d’animo di chi scrive, non si percepisce quel tono vagamente ironico e sornione che ci sembra di intuire in Goya Enigma di Alex Connor, non c’è il romanticismo di Strukul e nemmeno l’inconfondibile impronta del professore che guida il lettore tra le pieghe dei fatti storici, come in Scurati.
La Baraldi si limita a raccontarci una storia e a farlo in modo lucido, razionale e analitico, anche se mai freddo. Ovviamente non c’è un modo giusto e uno sbagliato di narrare, ogni scrittore ha la sua “voce”, ed è bello, a mio parere, notare queste piccole differenze che ci fanno capire come, prima che uomini e donne, siamo innanzitutto persone diverse.
La Baraldi si perde molto nei dettagli e nelle descrizioni, ma senza essere mai prolissa né noiosa, anzi: ogni incursione nell’ambiente circostante e nell’animo dei personaggi crea una sorta di “bolla” in cui il lettore si culla, nell’intervallo che passa tra un omicidio e l’altro.
Quando la proprietaria del B&B La Piccola Fattoria racconta aneddoti della sua giovinezza, quando Aprile rievoca i momenti passati col nonno e quando Aurora racconta della sua infanzia, siamo di fronte a un “piccolo mondo antico”, che all’apparenza potrebbe sembrare una semplice divagazione, totalmente decontestualizzata dal troncone principale della trama, ma in realtà non lo è mai del tutto, lasciando respiro al lettore e distraendolo per un momento, per poi riagganciarsi al filo del plot.
Aurora Scalviati incarna tutti i tormenti e le fissazioni del classico poliziotto di periferia, senza tuttavia essere mai banale e, visto il seguito del romanzo con L’Osservatore Oscuro, diventa una specie di Robert Langdon – il protagonista dei romanzi di Dan Brown – al femminile, con il portapillole al collo al posto dell’orologio di Topolino, e l’ansia al posto della claustrofobia. Un’altra analogia con Dan Brown è quella relativa ai colpi di scena, che si susseguono con una certa regolarità.
Tuttavia, mentre nel caso dello scrittore inglese il lettore dopo un po’ tende quasi ad aspettarseli, e per chi è un affezionato di Brown – tipo la sottoscritta – quasi a trovare una certa familiarità in questo suo modo di narrare, con la Baraldi la faccenda cambia: ogni colpo di scena e inaspettato e originale, tanto da creare sempre la gusta suspense.
CRITICITÀ
Anche qui, come per Inquisizione Michelangelo, devo a malincuore svolgere il mio ruolo di recensore fino alla fine e andare alla ricerca del “pelo sull’uovo” in un romanzo decisamente entusiasmante.
La trama di Aurora nel buio è complessa, a tratti intricata, e l’autrice dimostra di saperla gestire bene, senza fare passi falsi o cadere nella trappola delle incongruenze. Tuttavia c’è un passaggio sul finale che non mi ha convinta del tutto e riguarda uno scambio di identità a mio parere davvero difficile da praticare, oggi come oggi, specie se di mezzo c’è la carriera universitaria: per quanto il personaggio in questione prosegua gli studi in una sede diversa da quella della sua vittima designata, l’ho trovata un po’ una forzatura, considerato quanto siano “schedati” gli studenti universitari.
E infatti Barbara la risolve parzialmente sul finale, quando fa dire a Colasanti di aver scoperto “alcune discrepanze” in merito alla vita dell’impostore, ma non scende nei particolari dicendo quali discrepanze, dando così l’impressione che si voglia chiudere un po’ troppo in fretta.
Il personaggio di Aurora Scalviati l’ho trovato ben costruito e mai contraddittorio, ma in alcuni passaggi forse un po’ stereotipato. Lo si nota quando il suo abbigliamento viene descritto come “mascolino” e dallo scambio di battute – che non vi anticipo – con la collega Silvia, quando quest’ultima rivela alla protagonista di essere omosessuale. Si tratta di argomenti un po’ delicati, specie dopo le recenti polemiche sorte in merito alla presunta scarsa femminilità delle calciatrici che giocano nella nazionale italiana, e proprio per questi motivi, personalmente, trovo più originali i personaggi femminili che, pur rivestendo ruoli forti e “mascolini”, mantengono intatta la loro femminilità. Lara Croft in Tomb Raider e Natasha Romanoff, la Vedova Nera della Marvel, solo per citarne un paio… Ma questo resta soltanto un mio parere.
La storia si chiude con un finale eccellente sull’epilogo, che lascia aperta la porta su di un eventuale seguito del romanzo, perché “nessuno… può uccidere… il lupo cattivo.” Ed è pacifico che io, il seguito, lo leggerò eccome.