Arrivati a quel punto non era più nemmeno una questione di soldi, quanto piuttosto di principio. Una specie di sen-so di giustizia, se volete, di rettitudine, se per lui rettitudine voleva dire qualcosa.

Il lavoro che gli era stato richiesto più di un anno prima, l’aveva fatto senza fiatare, l’aveva fatto subito e l’aveva fatto come Dio comanda. Nei minimi dettagli.

Eppure, e questa era la nota dolente, i soldi pattuiti non li aveva mai ricevuti, anzi, di quella cifra non aveva avuto neanche un centesimo, ragion per cui a un certo punto aveva deciso di andare a prenderseli di persona una volta per tutte, senza inutili convenevoli, false cortesie o stupide richieste formali.

Perciò quella sera prese la sua Fiat Bravo bianca taroccata di tutto punto con tanto di vetri oscurati, mascherine copri- fari, spoiler e alettone posteriore, e si diresse deciso a Gorgo, anzi, tra le campagne attorno a quella minuscola frazione, perché era proprio lì che viveva Tito Pasquato, il suo debitore, in quella bassa provincia padovana che tanto assomiglia alla Louisiana occidentale. Abitava esattamente in una cascina ristrutturata lontana anche dagli occhi di Dio, affogata tra i campi di barbabietole, soia, bruma e nient’altro, eccetto l’amara consapevolezza di essere collocati nel culo del mondo. Una cascina nascosta come una stella in pieno giorno.

La Bravo procedeva lenta nella notte, attraversando decine di chilometriche stradine sterrate uguali l’una all’altra come bianchi perimetri dei campi coltivati che si estendevano a destra e a sinistra. Ovunque. La strada la ricordava perfettamente e guidava guardando dritto davanti a sé, attraversando di tanto in tanto qualche banco di foschia spessa come il fondotinta sulla faccia di un vecchio clown, mentre decine di falene, moscerini e altri insetti notturni si spiaccicavano sul vetro del suo parabrezza rilasciando una poltiglia densa e appiccicosa.

I fari illuminavano a malapena le stradine di ciottoli, mentre dalle casse dell’autoradio risuonavano alcuni pezzi dei Balkan Blues, con una musica battente e ritmata che si alzava nel cielo assieme al polverone sollevato al passaggio dell’auto.

Quando finalmente intravide la sagoma della vecchia cascina di Tito Pasquato a qualche centinaio di metri di di- stanza, sorrise soddisfatto, pensando che di lì a poco avrebbe definitivamente risolto la questione e buonanotte a tutti.

Avrebbe parcheggiato l’auto davanti all’ingresso, avrebbe bussato alla porta, si sarebbe fatto dare con le buone o con le cattive quei fottuti soldi e infine se ne sarebbe tornato a casa col suo bel malloppo. Né più, né meno di ciò che gli spettava. Poco ma sicuro.

Non appena però fu in prossimità della casa notò che non c’era alcuna traccia del Ducato Maxi scalcagnato di Tito, solitamente posteggiato sull’aia. Pensò subito che quello fosse un brutto segno. Il segno che con tutta probabilità il farabut- to non era in casa.

Parcheggiò la Bravo davanti all’ingresso, aspettò che la polvere sollevata dalla sua auto svanisse inghiottita dalla prima foschia d’ottobre e dai campi di barbabietole, quindi si legò i capelli dietro la testa con un elastico, si tirò su le maniche sulle braccia nerborute e ancora abbronzate e, come ultimo ma più importante gesto, afferrò con fermezza il suo Fabarm Martial caricato a pallettoni da cinque millimetri di diametro.

Quarantacinque anni, uomo di grossa corporatura, fanatico di calcio bosniaco al punto da portare con orgoglio un tatuaggio di Safet Sušić sul bicipite destro, tirò un sospiro, bevve un sorso di rakija alla pera che teneva nascosta nel cruscotto, spense l’autoradio, scese dalla Bravo brandendo il fucile a pompa e si avvicinò all’entrata, camminando con passi lunghi e ben distesi sulla ghiaia. Non aveva l’aria da duro o cattivo. Sembrava piuttosto un placido distillato di entrambe le qualità e, soprattutto, dava l’impressione di conoscere qualcosa che nessuno era in grado di vedere.

Quando dopo pochi istanti fu davanti all’ingresso, portò uno sguardo rapido e fugace verso il tetto della cascina, sospirò nuovamente e infine bussò deciso alla porta. Tre colpi secchi. Nessuna risposta. Pensò che forse Tito non c’era. O che forse voleva fare il furbo come sempre. Bussò una seconda volta. Altri tre colpi secchi. Niente. Bussò una terza. Silenzio. Intanto dai campi intorno si levava il forte gracidare delle rane e il suono gutturale e convulso di qualche strana bestia probabilmente in estro. Una fitta nebbia iniziò a levarsi dai fossi rendendo il paesaggio spettrale. Pensò che quella storia lo aveva davvero stancato e che anziché trovarsi di fronte al palco di un bel concerto blues stava perdendo il suo tempo in quel posto di bifolchi per avere una cosa che gli spettava di diritto.

A un certo punto la porta di legno della cascina si aprì lentamente, cigolando come un fagiano agonizzante finito sotto le ruote di un motocarro. Si aprì piano piano e dietro di essa comparve, piccola, rugosa e smunta, la figura di una vecchietta occhialuta e ingobbita, una sorta di lumaca con tanto di guscio sulla schiena e le lenti degli occhiali spesse come il fondo di un Pokal dell’Ikea.

«Chi è?» chiese questa con una vocina flebile.
«Sono Zlatan. Zlatan Tuco», rispose il bosniaco per la verità poco sorpreso. «Sono qui per figlio. Puoi chiamare lui, per favore?» disse con il tono della voce grave e il suo forte accento slavo mentre nascondeva con cura la grossa arma dietro la schiena.

Zlatan si ricordava benissimo della vecchia e ricordava altrettanto bene sia il suo proverbiale rincoglionimento, sia la sua sostanziale cecità che le impediva di vedere perfino se era giorno o notte.

«Tito?» chiese lei.
«Già. Dobbiamo parlare di vecchio affare. Puoi chiamare lui fuori?».
La vecchia sospirò con aria rassegnata e poi disse: «Ah, Tito non c’è, è andato via». Zlatan guardò rapidamente a destra e a sinistra, poi nuovamente dove avrebbe dovuto essere parcheggiato il Ducato e infine sbirciò dentro casa, oltre la lumaca del Neozoico.
«Come sarebbe a dire “andato via”?» disse aprendo meglio la porta.
«Oggi pomeriggio. Ha preso il suo furgone ed è partito. Per qualche giorno. Così mi ha detto. Ma lei chi è?».
«Te l’ho detto: Zlatan Tuco». E così dicendo spalancò del tutto la porta.
«Beh, dove crede di andare? Gliel’ho detto: Tito non c’è». «Sai per caso dov’è?» insisté lo slavo continuando a guardare all’interno della casa per scrutare eventuali movi- menti sospetti.
«A me non dice mai niente, entra ed esce quando vuole e ringrazio Dio se è ancora vivo. Lei è un suo amico?».
«No, signora. Tempo fa ho fatto un lavoretto per lui e sono venuto per chiedere soldi che avanzo. Io e lei ci siamo già conosciuti, ma forse lei non ricorda».
«No, infatti. Cosa vuole, sono vecchia… come ha detto che si chiama?».
«Zlatan». «E che razza di nome è?». «È un nome straniero. Di ex Jugoslavia. Bosnia», disse spostando garbatamente la vecchina di lato ed entrando pre- potentemente all’interno della casa.
La vecchia allora si sistemò gli occhiali sul naso e dopo un attimo di silenzio mormorò:
«Oh, per carità! Ci mancavano anche gli stranieri, adesso. Mio marito si rivolterà nella tomba. Chissà cos’ha combina- to quel disgraziato… Senta, ma cosa ci fa dentro casa mia, che cosa vuole?».
«Te lo chiedo un’altra volta: sai dove posso trovarlo?» disse Zlatan voltandosi verso di lei e brandendo il fucile a pom- pa che la vecchietta non riusciva a vedere.
«Chi, Tito?». Zlatan perse la pazienza e sbraitò: «Sì, cazzo! Tito! Tito! Tuo figlio! Chi sennò?» e avanzando col fucile in mano pronto a colpire iniziò a perlustrare palmo a palmo tutte le stanze in una sorta di caccia all’uomo, come una volpe affamata intenta a stanare un coniglio. Continuando a parlare con la vecchia, cercò il suo uomo nelle camere, in bagno, al piano di sopra, sotto i letti, dentro gli armadi, poi di nuovo giù in cucina e nei ripostigli, dove trovò soltanto un gatto spelacchiato e spaventato.

«Dove ti sei nascosto?» urlò Zlatan correndo di qua e di là, «vieni fuori, brutto figlio di puttana!».
«Ehi, ma dove corre di qua e di là, adesso? Le ho detto che mio figlio non c’è. Ha provato piuttosto a chiamarlo al telefono?» disse la vecchia tenendosi invano le stanghette degli occhiali con entrambe le mani per cercare di capirci qualcosa di più.

«Sì, l’ho chiamato decine di volte. Quando vede che sono io non risponde perché non vuole pagarmi. Ma alla fine pagherà, questo è poco ma sicuro. Pagherà caro!» disse Zlatan, ritornando da lei senza la sua preda. «Perché a Bačka Topola, mio paese in Vojvodina, debitore paga debito. E se non paga, fa brutta fine. E Tito deve pagare, sennò Tito brutta fine. Molto brutta!».

Quindi uscì tutto trafelato, andò in macchina, prese una torcia elettrica che teneva nel cruscotto accanto alla rakija e, Fabarm nella mano destra e torcia in quella sinistra, iniziò a perlustrare guardingo e risoluto tutt’attorno alla casa, fin dentro il pollaio, la rimessa e la baracca degli attrezzi, mentre la vecchia, uscita anche lei, continuava a ripetergli: «Provi a telefonargli, provi a telefonargli, lo chiami».

Niente di niente. Di Tito nessuna traccia. Allora il bosniaco cessò la vana ricerca, si avvicinò lentamente alla vec- chia e con un tono filiale le disse:
«Se per caso lo vedi, digli che Zlatan Tuco ha finito di aspettare».

E senza aggiungere altro salì in auto, si sciolse i capelli, accese nuovamente il sound dei Balkan Blues e ripartì tra il buio e la foschia facendo sgommare sul ghiaino le ruote della sua Bravo tamarra.