BlacKKKlansman, la recensione di Matteo Marchisio del film di Spike Lee con Adram Driver e John David Washington.
Spike Lee porta sul grande schermo la storia romanzata del poliziotto nero che negli anni ’70 riuscì a infiltrarsi nel KKK grazie a una serie di incontri telefonici e scambi di persona.
La carica sociale di una pellicola del genere è assoluta e guida ogni ricostruzione storica, imponendosi come leitmotiv di un film potente, capace di portare a casa premi per la fotografia e montaggio, al pari di critiche sulla storicità di cosa messo in scena.
A partire da un romanzo non storico ma biografico, è stata estrusa una storia in cui il pivot di tutto sono i maltrattamenti dei neri in America, assolvendo i cop di colore che all’epoca collaborarono al COINTELPRO, con una scusa generica tipo: erano lì, che cosa avrebbero dovuto fare?
Lo Spike Lee regista tira in ballo l’uguaglianza mai ricevuta delle minoranze in USA cara allo Spike Lee uomo: a partire dalla questione afroamericana, con qualche cucchiaiata di complotto negazionista e un personaggio con origini ebree che cerca di non esporsi, anima una pellicola schieratissima che di entertainment ha solo i colori sparati e il ritmo.
Ma l’argomento di fondo non può che suscitare simpatia e come dicevano i Blues Brothers: i hate the illinois nazis…
La trama di BlaKkKlansman segue le vicende di Ron Stallworth primo poliziotto afroamericano di Colorando Springs, che per caso entra in contatto con una cellula locale del Ku Klux Klan. Il click fatale con il Gran Maestro del KKK arriva per telefono, dove vince solo l’accento.
Il viaggio tra i bifolchi vira dal comico al paradossale, al documentaristico tanto che quando si raggiunge la fine Lee molla le briglie infilando spezzoni di notiziari TV per chiudere la pellicola, l’ultima mazzata allo stomaco dopo il racconto di un anziano, all’epoca testimone oculare, di uno degli ultimi linciaggi pubblico di un nero in America ricordato dalla storiografia ufficiale
In BlaKkKlansman c’è tanto riso amaro e satira che provano a mitigare pensieri e background di un’organizzazione come il KKK che sembra godere di un inaspettato ritorno in auge, tirando perfino in ballo un pilastro della cultura estremista come The birth of a Nation, lungometraggio muto del 1915 in cui i Clansmen proteggevano i valori tradizionali a colpi di spada.
Il background degli anni ’70, con i pantaloni a zampa, la prima disco, la CIA che fa capolino tra i redneck al poligono illegale avvolge ogni scena, rende impossibile dimenticare dove e quando si muovono i personaggi.
Il Male che emerge è caricaturale, sempre in bilico tra il ridicolo e l’agghiacciante, perpetrato da personaggi macchiette se considerati singolarmente, terroristi quando tutti insieme armati fino ai denti, Uomini di Stato se indossano una divisa.
Grande performance di John David Washington, bro al punto giusto, arrabbiato, determinato, innamorato di una blackpanter, ma soprattutto di Adam Diver, che si conferma un mito assoluto.
L’ex Marine, signore Sith, papino incasinato di Storia di un matrimonio con la scena della litigata da paura, interpreta Flip sbirro che vuole le cose ben fatte e meno politica possibile. Per l’ennesima volta Diver si rivela in possesso di una presenza fisica titanica, aiutato dall’intonazione nasale e potente, peraltro BlacKKKlansman va visto rigorosamente in inglese su AmazonPrime.
BlacKkKlansman è una pellicola che riesce a unire il parere di pubblico pagante e critica, tanto da portarsi a casa un sano 98% su Rotten Tomatoes, 5 candidature agli Oscar 2019, premio della giura a Cannes 2018, intascandosi meritatamente un centinaio di milioni di dollari a fronte di una quindicina spesi.