Blade Runner è il Film di fantascienza degli anni ’80, manifesto di una generazione cyberpunk a venire.
Blade Runner è il Film di fantascienza degli anni ’80, manifesto di una generazione cyberpunk a venire. Ridley Scott, tre anni dopo il suo capolavoro Alien, gira una pellicola oscura e futuristica dai forti connotati sociali, riscuotendo grandi consensi, raggiungendo presto la vetta dell’ Olimpo di Hollywood.
Ispirato a Il Cacciatore di Androidi (Do Androids dream of Electric Sheep?) dell’autore di culto Philip K. Dick, Blade Runner nel 1982 mescola fantascienza, scenari futuristici, tecnologia oltre ogni limite umano (androidi ai quali mancano solo le emozioni per essere considerati a pieno titolo persone) e persino temi cari al genere poliziesco. Il nocciolo del film è legato all’improvvisa fuga di sei esemplari di replicanti dell’ultimo modello “Nexus” (nome oggi utilizzato dalla google per i suoi smartphone, per dovere di cronaca) dalle colonie di Extra-Mondo, dove erano impiegati come schiavi.
Due di loro finiscono fin da subito in un campo elettrico e vengono catturati, ma gli altri riescono ad arrivare a Los Angeles, dove sperano di riuscire ad introdursi nella loro fabbrica di produzione per poter allungare la durata della propria esistenza. I “Nexus”, infatti, sono una serie di replicanti in tutto e per tutto perfetti, ma essendo dei robot sono programmati anche per morire in un preciso momento. Il modello a cui appartengono questi androidi fuggitivi è il migliore mai prodotto finora, così tanto efficiente che ha iniziato a pensare davvero come un essere umano: la tecnologia si scontra per la prima volta con la coscienza.
Un discorso che negli anni futuri avrà ampie pagine di dibattito, dalla clonazione della pecora Dolly in poi, passando per l’esperienza dei fratelli Wachowski con Matrix, datato 1999. Parte della forza del film arriva anche dalla presenza dell’attore/icona Harrison Ford, che negli anni ’80 spopolava di brutto e, novello Re Mida, trasformava in oro qualsiasi progetto al quale prendesse parte. Ford, che rimarrà in eterno legato principalmente ai ruoli di Han Solo e Indy, è perfetto nella parte del cacciatore di androidi Deckard, sempre combattuto fra l’obbedienza agli ordini e i dubbi morali.
Altro personaggio cardine accostato a Blade Runner è Roy Batty (interpretato da un algido e spettacolare Rutger Hauer, ancora lontano anni luce dai clamorosi tonfi di Barbarossa e Dracula 3D), capo indiscusso di uno sparuto manipolo di androidi con data di scadenza. Se Deckard per certi versi riporta alla mente Ellen Ripley in Alien per il carattere carismatico e orgoglioso (cercano entrambi in tutti i modi di mascherare le proprie debolezze e i propri lati umani), lo stesso paragone non può essere fatto fra Batty e gli xenomorfi nati dalla geniale mente di H.R. Giger. Batty è un antagonista profondo e portatore di un messaggio importante, mentre i mostri di Alien sono esseri spietati e mossi soltanto dalle più primitive pulsioni extraterrestri. Infine, mentre nel capostipite del genere fanta-horror moderno, l’androide Bishop ricopre comunque il ruolo di “servitore” a bordo dell’astronave Nostromo, Roy Batty evita ogni facile etichetta e rappresenta un personaggio poliedrico e ben più complesso di molti umani, a dimostrazione che forse anche una creazione fatta di metallo e materiali sintetici può davvero sognare pecore elettriche.
Ciò che colpisce in maniera totale, è la visione avanguardistica della storia, ambientata in un mondo distopico dove questa serie di “replicanti”, androidi in tutto e per tutto identici agli esseri umani, ma molto più efficienti, iniziano improvvisamente ad avere degli istinti di ribellione. Possono degli esseri artificiali essere dotati di una coscienza umana? Quanto il progresso tecnologico può influire nella nostra esistenza e quanto un essere umano può sentirsi libero di sfruttare le loro conoscenze? Già Goethe metteva in dubbio il corretto uso della volontà di conoscenza dell’essere umano, quando nel 1808 scrisse il suo immortale Faust: un uomo che, pur di conoscere tutto, vende la propria anima al diavolo, impulsivamente, senza pensar troppo alle conseguenze. Attenzione: non è che Goethe volesse dire che è meglio essere delle capre, ma ci tiene a sottolineare che una cosa è la volontà di imparare e un’altra è la volontà di potenza.
La tracotanza del buon Faust lo porterà inesorabilmente incontro al suo tetro destino, dove la morte di Margarete ricorda un’altra donna di un altrettanto celebre opera: l’Ofelia di Amleto.
Fermiamo qui le citazioni colte, per evitare una digressione troppo lontana nel tempo. Tuttavia, non si può negare che la base di riflessione di Ridley Scott non può che essere quella che si lega alla linea di sviluppo della conoscenza, così come all’immancabile studio del comportamento umano di fronte al diverso. L’essere umano che caccia il robot, il robot che chiede solo di vivere liberamente, come un essere umano. Chi può effettivamente decidere se questi esseri, creati per soddisfare i bisogni dell’uomo, non abbiano a loro volta dei bisogni o dei desideri? Di fatto, accettare questo punto di vista farebbe molto discutere, soprattutto i creazionisti, in quanto si rimetterebbe in gioco tutto il dibattito fatto da secoli attorno all’esistenza dell’anima e su chi la possieda o meno. Gli androidi con la data di scadenza non sono altro che un ritratto fedele degli uomini, destinati a morire, ma perennemente alla ricerca di un Sacro Graal, di un elisir che possa ingannare la morte e donare loro la tanto agognata immortalità. L’ambiguità sta proprio nella possibile sovrapposizione dei ruoli.
Forte emerge la denuncia di Scott ad una società che ha scambiato la propria anima con microchip e fredde tecnologie. Le creazioni, meri prodotti di laboratorio con funzioni ben definite, risultano “animate” da uno spirito più nobile che gli uomini, pronte forse a soppiantarli in un prossimo futuro. Blade Runner convoglia in un solo film un intero immaginario di fantascienza futuristica dove emerge una passione sfrenata per le tecnologie (che anticipano con una sorprendente precisione quelle attuali) e per un’estetica noir fatta di oscurità, smog e pioggia tra grattacieli smisurati e strade traboccanti di culture e personaggi disparati. La città, in questo caso Los Angeles, ma potrebbe essere una qualsiasi metropoli occidentale, è ormai completamente estranea al concetto di “a misura d’uomo”, essendosi riconfigurata in funzione di una convivenza apparentemente pacifica tra creatori (umani) e creazioni (quasi umane) all’insegna di un futuro hi-tech sostanzialmente scevro da sentimenti e da elementi naturali. Un doveroso appunto va alle musiche soffuse e atemporali di Vangelis.
Il compositore di origine greca stende un tappeto memorabile fatto di elettronica e di vibranti emozioni: la colonna sonora perfetta per un film, quel tocco che ha contribuito a rendere leggendaria questa pellicola di Ridley Scott, identificandosi e legandosi indissolubilmente con essa. Il finale del film, da molti considerato uno dei più ambigui della storia del cinema (io continuo a pensare che il più assurdo fu quello di The Blair Witch Project, comunque.[n.d.S.]), è eccezionale: il replicante biondo Roy Batty, rincorre bramando vendetta il poliziotto Deckard. I due finiscono sopra il tetto di un grattacielo, dal quale Deckard rischierà di cadere giù, venendo poi inspiegabilmente graziato dal suo nemico, il quale lo salva e poco dopo pronuncia il suo ultimo, famosissimo, monologo, prima di morire: Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
Alcuni punti del monologo rimangono oscuri, come ad esempio i “raggi B” o “le porte di Tannhäuser” mai citate prima nel film, altri invece sembrano far riferimento al passato del replicante, impiegato come forza militare nelle colonie di Extra-Mondo. “Ho visto cose che voi umani” è diventata oggi una citazione di uso comune per risaltare la valenza epica di una serie di fatti raccontati, magari dopo una festa alcolica fra studenti universitari. O anche dopo una femminile caccia allo shopping da saldi.
Tuttavia, ciò che è davvero importante è che questo finale mette in dubbio tutto quello che davamo per scontato fino a un minuto prima: la natura umana di Deckard. Il sospetto si rafforza poco dopo, quando il nostro protagonista corre a cercare Rachel, l’ultima replicante a noi nota ancora in vita. +Deckard trascina Rachel fuori dall’appartamento e i due corrono verso l’ascensore ma, poco prima di salirci, la replicante scansa con un tacco un piccolo origami a forma di unicorno. Un unicorno come quello che qualche tempo prima il poliziotto Deckard aveva sognato ad occhi aperti: innesti di pensieri precedenti alla sua creazione o pura coincidenza? Il sospetto di una natura robotica anche per il personaggio interpretato da Harrison Ford è forte, tanto da ribaltare tutta una morale del film appena visto e tanto da riuscire a renderlo ancora più bello.
Un’immortale riflessione su ciò che è vero e su ciò che non lo è, su ciò che umano e su ciò che è troppo umano, sull’importanza della libertà e sulla lotta per ottenerla, sui valori in cui credere e sulla difficoltà di riuscire ad individuare da subito la corretta visione delle cose, sempre che essa esista. Una pietra miliare per la fantascienza, che per certi versi ricorda il Metropolis di Fritz Lang, un film che si deve vedere almeno una volta nella vita. Ma anche due, tre, quattro…