In memoria di Charlie Watts, un gigante del rock. L’omaggio di Marco Azzalini al batterista dei Rolling Stones scomparso il 24 agosto 2021.
Charlie Watts era l’uomo del roll prima del rock, o almeno così si diceva tra chi tentava di decifrare la combinazione che rendeva Charlie Watts un batterista straordinario troppe volte bollato come una sorta di enigma frainteso.
Certo, sarebbe facile liquidare quello slogan come la sparata di un singolare musicista ex direttore di una rivista porno – una storia vera e degna di un brano degli Stones – ma è forse proprio da quella sintesi, da quel roll prima del rock, che occorre partire per non dissolvere la storia di Charlie Watts nella solita litania sulla bravura dei batteristi. Un’eterna diatriba spesso segnata dalla preferenza difficilmente spiegabile per l’aspetto muscolare e talvolta coreografico, non di rado a scapito della considerazione delle scelte musicali, della funzionalità e del gusto in una lenta ma inarrestabile deriva che ricorda alla lontana quella che ha condotto dall’arte della cucina al perenne e spesso dimenticabile show televisivo dei fornelli.
Se certi paragoni non sono stilisticamente sensati (quelli con John Bonham, Ginger Baker, Keith Moon) e a volte è pur vero che si è ricorsi all’elogio del minimalismo o di una specie di esile evanescenza per non entrare nel merito di questioni più complesse (tra gli altri, il caso di Nick Mason), va detto, per sgombrare il campo, che Watts era senza alcun dubbio un eccellente batterista, al quale non piacevano gli assoli di batteria – lo disse più volte – anche e forse soprattutto perché aveva dello strumento una visione molto chiara: non parsimoniosa né riduttiva, ma molto chiara.
Un batterista jazz prestato al rock
Charlie Watts era in tutto e per tutto un batterista jazz e tale è rimasto per tutta la vita, dalla passione per Chico Hamilton ai progetti solisti e alle illustri collaborazioni, praticando e studiando il jazz fino all’ultimo e non relegandolo mai in secondo piano rispetto alla sua attività con gli Stones.
Ha suonato tantissimo, con tantissimi, ed è rimasto fedele a quella che appariva anche una cifra personale: un set essenziale, una vita ricca ma essenziale, una figura essenziale. E se anche il suo drumming pareva troppo essenziale ad alcuni è perché talora veniva frainteso per un’immagine equivoca che per molti versi ha riguardato l’intera musica degli Stones e, a ben guardare, non solamente la loro musica.
In realtà Watts era il batterista perfetto per quell’accozzaglia imperfetta che nell’arco di oltre cinquant’anni ha saputo rimanere emblema di un genere che nessun altro è riuscito neanche lontanamente a imitare per la geniale ragione, solo apparentemente contraddittoria, che la band non aveva in effetti inventato nulla ma aveva mutato in maniera decisiva il modo di fare quello che agli esordi Richards e Jagger avevano pensato essere la loro strada, vale a dire il rimanere un gruppo di cover blues.
Il suono immortale degli Stones
Ma come c’era altro in loro, oltre alle cover, ed era la capacità di prendere una parte di quel vecchio blues facendolo diventare la musica, le canzoni, il suono immortale dei Rolling Stones, anche in Charlie Watts, forse l’indole più profondamente britannica del gruppo, c’era altro oltre al jazz.
Era capace di scatti d’ira e di grande ironia, di cazzotti e gentilezze, soprattutto gli importava della musica: e sapeva costruire una base ritmica solida e personalissima a sostegno dei micidiali riffs rauchi di Richards, che non a caso lo ha sempre definito il miglior batterista col quale avesse mai suonato.
Nell’impasto di chitarre degli Stones, una faccenda complicata dove c’entrava anche Ronnie Wood, che aveva suonato con Beck e i Faces e non con Muddy Waters, la batteria di Watts giocava un ruolo fondamentale ed insostituibile. Sembrava sempre sul punto di andare fuori tempo e mandare a puttane tutto e invece era il perfetto pilastro sghembo per quello stile, in un eloquente parallelo con le esistenze dei membri della band, dove molto è durato oltre ogni dire, e anzi per molti versi è migliorato, quando per l’appunto sembrava sempre tutto destinato a finire a puttane.
Checché se ne sia detto molte volte, non è vero che gli Stones siano sopravvissuti a se stessi. Non è vero che abbiano spremuto il mito fino a logorarlo e non è vero neppure che quell’apparente durare in eterno abbia in qualche modo tradito la ragione sociale che era stata appiccicata a loro in fronte soprattutto da chi non ne aveva ben capito la sostanza, di cui Watts era in fin dei conti, insieme a Richards, l’elemento portante.
Charlie Watts, simbolo di un mondo che non c’è più
L’equivoco è sempre stato in una questione di alchimie e travisamenti: sembravano più sgarrupati di quanto fossero, più pericolosi di quanto fossero, meno bravi di quanto fossero e forse anche, e del tutto a torto, meno creativi di altri solamente perché quello che suonavano era nella massima parte rimasto fedele a una matrice blues originaria i cui canoni difficilmente invecchiano, e alla lunga finisce col conservare la stessa inossidabilità che per oltre cinquant’anni ha connotato la band.
Si trattava di un blues lussureggiante e lussurioso, nuovo e ripensato, condito da sonorità più dure, scandito da un batterista jazz prestato al rock. Era un inganno e un gioco che si fece poco a poco nuova verità, una geniale porcata che fece imbestialire molti solo perché non ci avevano pensato e non avevano avuto il talento, l’ardire e la spigliata bravura che serviva per farla diventare un nuovo canone, un metro di paragone e alla lunga una leggenda: e questo spiega il paradosso per cui nei loro primi tour americani venivano accolti da moltitudini di gente convinta che quella musica inedita venisse dall’Inghilterra, quando invece erano semmai proprio loro a riportarla in patria, in America, da dove tutto era venuto e dove Richards aveva individuato i suoi eroi di cui seguire le orme, per lo più bluesmen neri dei quali aveva ossessivamente studiato lick e passaggi.
Non dev’essere un caso che l’ultimo album realizzato con Watts in vita abbia finito con l’essere di nuovo una raccolta, eccelsa, di cover blues (Blue & Lonesome). Non dev’essere un caso che il primo della combriccola colpito da quell’evento che sembrava destinato a risparmiarli per sempre sia stato quello che appariva il più tranquillo e in realtà era per certi versi il più Stone di tutti, proprio per quella sorta di equivoco, anche qui di travisamento, che lo voleva fuori posto dove invece era la sua casa.
E non dev’essere un caso nemmeno che Watts abbia salutato tutti nelle ore in cui giunge la notizia che l’ex bimbo protagonista della copertina di Nevermind s’è messo in testa la penosa e grottesca idea di fare causa ai Nirvana superstiti con una nebulosa accusa di pornografia e danno all’immagine.
Un episodio che aggiunge un dimenticabile ma eloquente tassello a un’epoca che insieme al senso degli eventi sta perdendo anche il lume della ragione: e che rende evidente quanto sia ancora importante, quando serve, tirare fuori quella linguaccia da fumetto che ieri faceva da intestazione all’annuncio dell’addio di un grande.