1. Il legame con i Territori.

“Più uno scrittore è dei suoi posti, più sono le possibilità che diventi universale.”
Isaac Bashevis Singer

Sarà perché già da bambino amavo scoprire e conoscere paesi lontani leggendo i romanzi di Mark Twain, Jack London ed Emilio Salgari, lasciandomi meravigliosamente smarrire nei paesaggi evocati nelle loro storie avventurose, dove la natura e i precisi ambienti da loro descritti assurgono a veri e propri “personaggi”, e nei quali spesso risiedono molto più che semplici contesti paesaggistici. Sarà per questo che amo le scritture fortemente legate al territorio.
Ho sempre creduto infatti che il loro fascino stia nel fatto che certi ambienti abbiano la capacità di evocare suggestioni importanti e insieme rappresentare vizi e virtù propri dell’uomo in una sorta di significazione semiotica.
Si pensi ad esempio alle opere del grande Cormack McCarthy (che se il Nobel per la letteratura fosse ancora un riconoscimento serio, lui l’avrebbe vinto da tempo). Nei suoi romanzi egli rappresenta il vecchio West americano trasformandolo magistralmente in un territorio di frontiera metafisica posta tra il bene e il male; i meravigliosi luoghi remoti, duri, aspri e violenti che fanno soltanto apparentemente da sfondo ai suoi libri, non sono altro che metaforiche esperienze dell’animo umano e terre di confine in cui entra il Male.
Territorio e spazio dunque intesi come aspetto estetico profondamente affascinante e suggestivo, ma anche e soprattutto come elemento fondante una narrativa che non si limiti soltanto ad “intrattenere” riempitivamente il lettore e a fare da cornice all’azione, ma che al contrario contribuisca esso stesso a fare Letteratura.
Le opere di Giovanni Verga vi dicono niente?
Osservare un territorio ristretto per raccontare il mondo intero, quindi.

2. La forza del racconto.

“Raccontare per raccontare, senza perdersi in troppi fronzoli.”
Mark Twain

Sarà perché come lettore, al “bello scrivere” ho sempre preferito il “forte raccontare”, scegliendo sempre gli scrittori duri, potenti, quelli che ti fanno sentire vivo e le cui storie ti prendono e ti portano via facendo di te ciò che vogliono, facendoti provare emozioni toste, interrogandoti sul Mondo e sull’Uomo grazie alla forza della narrazione. La penso esattamente come Tzvetan Todorov quando nel suo saggio “La letteratura in pericolo”, rinnega finalmente quel retaggio culturale e ideologico che prese il nome di strutturalismo per sostenere finalmente con fermezza che ciò che di importante ci rimane dopo aver letto un romanzo non sono certo il suo formalismo, l’eleganza della scrittura, la ricerca fonetica del termine esatto o il contesto sociale che ha portato alla creazione di tale opera, bensì la propulsione e l’energia della sua storia: quella cosa che permane dentro di noi come esperienza letteraria e che nel tempo si trasfigura in conoscenza di vita.

3. Una lingua viva e vera.

“Se raccontassi le mie storie con un linguaggio forbito, esse non esisterebbero.”
Erskine Caldwell

Sarà perché quando da adolescente mi sono avvicinato per la prima volta a certi narratori nordamericani ho provato la sensazione di incontrare finalmente degli scrittori che parlavano la mia lingua, facendomi arrivare al cuore il gusto di ritrovarmi nelle loro parole direttamente e veramente per la prima volta. Sarà per questo che mi piacciono le scritture brillanti, il lessico semplice, il registro medio. Mi riferisco soprattutto alle caratteristiche linguistiche e comunicative degli angloamericani e alla scioltezza, alla rapidità, al dinamismo, alla freschezza della loro lingua letteraria, sempre perfettamente aderente a quella della società in corso. Ricordo che quando lessi per la prima volta le opere di: Erskine Caldwell, William Faulkner, Ernest Hemingway, John Steinbeck, Sherwood Anderson, Elmore Leonard, ebbi da subito la sensazione di trovarmi di fronte a dei “compatrioti”, o meglio ancora dei familiari, insomma: gente che nuotava nel mio stesso fiume semantico e che era in grado di dirmi le cose come mi piaceva sentirle. Autori capaci di scrivere capolavori nella mia “lingua comunicativa”; quella lingua letteraria semplice, diretta, schietta che in Europa (ma soprattutto in Italia e in Francia) diventa ammuffita, farraginosa, polverosa, vecchia e prigioniera più dell’attenzione che gli autori rivolgono al significante che al significato delle proprie opere.
Un esempio. Se leggiamo un’opera di John Fante da una parte e una a scelta di Corrado Alvaro o Libero Bigiaretti dall’altra, ci è sufficiente la lettura di poche righe per renderci conto che nonostante tutti e tre abbiano prodotto narrativa nel primo Novecento, i libri di Fante sembrano stati scritti ieri pomeriggio, mentre quelli degli altri due sembrano stati scritti esattamente un secolo fa.
E’ un fatto. Checché ci si masturbi tutte le settimane sul domenicale del Sole 24ore, dalle cui pagine Gabriele Pedullà e altri intellettuali cruscheggiano a vuoto lanciandosi in Geremiadi sulla morte della lingua letteraria italiana mentre il mondo (e le sue lingue: quella parlata e quella letteraria) svoltano da un’altra parte, quella opposta. E allora giù a piangere perché in Italia nessuno legge più (i loro libri!).

4. Ironia.

“Solo agli Alcolisti Anonimi di Boston si può sentire la storia di un immigrante di cinquant’anni che racconta in maniera lirica la sua prima defecazione solida da adulto.”
David Foster Wallace

Sarà perché ho sempre amato le scritture ironiche e caratterizzate anche dall’umorismo (soprattutto se nero), così come le storie grottesche e politicamente scorrette, che spesso hanno il pregio paradossale di raccontare la realtà in maniera assolutamente verosimile (Luigi Pirandello diceva che con l’ironia si disvela ferocemente la realtà). Credo infatti che con l’ironia si possano affrontare piacevolmente temi e argomenti forti senza disgustare il lettore e che essa sia sempre sintomo di acume e intelligenza. Oltre a ciò credo profondamente che la narrativa debba avere anche il semplice compito di intrattenere. E infine, Sarà perché quando leggo le opere di Victor Gischler, Tibor Fischer, Kurt Vonnegut, Christopher Moore, David Sedaris, Josh Bazell, mi ritrovo poi a sorridere divertito mentre mi accorgo di aver imparato a guardare il mondo con occhi diversi.

5. Visibilità.

“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare, è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.”
Italo Calvino

Sarà perché sopporto sempre di meno certi babbioni autoreferenziali (critici, accademici e scrittoruncoli da quattro ghinee pressoché sconosciuti in Italia, figurarsi all’estero), gli stessi che invocano crociate contro certa narrativa e credono di offendere massimamente un romanzo stroncandolo come “cinematografico” (come se in un’opera letteraria il dono della “visibilità” non fosse un merito assoluto, quanto piuttosto una deminutio o peggio, una bolla d’infamia.)
E non hanno forse il dono della visibilità poemi quali l’Eneide, l’Orlando Furioso e la Divina Commedia? Mi viene da ridere quando penso che tra gli innumerevoli pregi del capolavoro dantesco vi è anche questo: la sua straordinaria capacità di rendere visibili i luoghi, i personaggi e le loro azioni, perché nell’intenzione dell’Alighieri essi dovevano essere utili a “far vedere” il suo poema a chiunque ne ascoltasse la lettura ad alta voce: ignoranti, villici e illetterati compresi!

6. Epica.

“Fa’ che succeda qualcosa in ogni pagina e che i personaggi abbiano sempre uno scopo. Il resto verrà da sé.”
Chester Himes

Sarà perché sono d’accordo con Jorge Luis Borges quando nel suo saggio “L’invenzione della poesia” sostiene che la letteratura europea del Novecento (complice la psicoanalisi) ha colpevolmente trascurato, se non addirittura abbandonato l’epica virando drasticamente verso un lirismo solipsistico autocentrato (fatto dalle pippe mentali del singolo autore incapace di uscire dal noioso e blando perimetro del proprio ego.)
Borges affronta questo tema dicendosi poi convinto che tale genere vada assolutamente recuperato pena la morte della narrativa stessa.
Sarà perché dall’epopea western fino ad oggi il codice epico ha trovato ospitalità dall’altra parte dell’Atlantico e da noi si preferisce scrivere e pubblicare altro (a parte rari casi, come quello del grande Valerio Evangelisti), ma a Chiara Gamberale, Paolo Giordano e Massimo D’Avenia io preferisco James Lee Burke, Tim Willocks e Joe R.Lansdale!

7. Niente snobismi.

“Mi sono nutrito perfino di fotoromanzi italiani. Le mie sorelle ne leggevano a centinaia. Io li adoravo; è lì che ho imparato i modelli perfetti di racconto.”
Daniel Picouly

Sarà perché nel corso degli anni ho scoperto e imparato ad amare anche la narrativa un tempo chiamata “di genere”, soprattutto i vecchi romanzi noir, western, pulp e i romanzi neri. Autori come Chester Himes, Jim Thompson, Derek Raymond, William Gaddis, James Ellroy, Raymond Chandler, ma anche scrittori e scritture cupe o stravaganti difficilmente riconducibili a qualsivoglia genere letterario: penso a Richard Brautigan, Breece D’J Pancake, Daniel Woodrell, James Ballard, William Burroghs, capaci con le loro storie (un tempo considerate di serie B se non addirittura osteggiate e boicottate dalla critica e dai benpensanti) di inserirsi tra le pieghe dell’animo umano e dell’intera società per scandagliarne paure, debolezze, nefandezze, psicosi, trasformazioni e verità nascoste quanto e più d’una qualsiasi opera letteraria engagé mainstream o di qualsiasi romanzo psicologico.
Per non parlare del grande nutrimento culturale offerto dal fumetto, dai cartoni animati e da tutte le forme narrative che sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo delle nuove generazioni a partire dalla fine degli anni ’70.

8. Neopulp, crossover e fusion.

“Metto i generi nello shaker, aggiungo altri elementi tra cui la trasgressione, poi agito come un matto.”
Chuck Palahniuk

Sarà perché sono sempre più convinto che nell’epoca e nel mondo in cui viviamo oggi sia necessario prendere coscienza che la cultura pop si è necessariamente fatta liquida, presentandosi in una sorta di contaminazione continua e costante tra diverse forme espressive (un impasto che io chiamo neopulp, appunto); con il risultato che letteratura, cinema, fumetto e altre forme d’arte si mescolano sempre più in una ricca ed inesauribile miscela di culture in continua trasformazione. Oggi non ha più alcun senso parlare di “genere” in senso assoluto e circoscritto.

9. Una narrativa rivolta a tutti.

“Se pensassi di scrivere una storia per rivolgermi soltanto agli intellettuali, mollerei tutto e andrei a pescare senza perdere tempo prezioso.”
Elmore Leonard

Sarà perché ho sempre pensato che la vera arte abbia il dovere e la naturale inclinazione di rivolgersi ad un pubblico ampio e non ristretto. Certo, il solo successo commerciale di un romanzo non è di per sé indice di qualità, ma ho sempre creduto che i libri che nascono per rivolgersi ad un numero ristretto di lettori e finiscano per raggiungerne effettivamente soltanto un numero esiguo ancorché coltissimo, non possano essere considerati grandi libri. Sono convinto infatti che i buoni romanzi (come i buoni film, i buoni fumetti e la buona musica) siano quelli che nascono con un obiettivo culturale e non commerciale, ma che finiscono per ottenerli entrambi. Quei libri cioè che per così dire “mettono d’accordo tutti”, dall’intellettuale al lettore occasionale o debole. Cos’è l’arte, infatti? Se essa mi esprime soltanto una cosa particolare o si ferma al particolare, non è arte. Essa è tale se assurge all’espressione di un universale umano: l’universale di una posizione umana verso il mondo, cioè l’opera rivolta a tutti.

10. Un manifesto aperto.

“La letteratura ha anche il compito di elaborare idee, provocare, anticipare.”
Richard Brautigan

Sarà perché credo fermamente che l’unione faccia la forza e che il confronto tra artisti sia prezioso non soltanto per il conseguimento di obiettivi comuni, ma anche per la motivazione e lo sviluppo creativo dei singoli artisti che vi partecipano in maniera attiva, mettendoli in confronto dialogico con idee e proposte altrui. Sarà per questo che penso che la cultura debba essere inclusiva, collaborativa e partecipativa. La cultura è prima di tutto incontro di idee. Unire le forze, darsi manifesti, perseguire canoni estetici condivisi.
Rompere gli schemi. Far discutere. Fare cooltura!

di Matteo Righetto