[Attenzione, durante questa recensione si prevedono improvvise precipitazioni di spoiler con tendenza al peggioramento verso il finale. Se non avete visto Cloud Atlas leggetela a vostro rischio]
Lo ammetto: avevo un po’ di pregiudizi su questo nuova promessa pietra miliare della cinematografia.
Arrivo dalla delusione di Tree of Life e, soprattutto, dopo Prometheus penso che la mia fiducia nei grandi registi americani sia scesa allo stesso livello di quella che possiedo per i politici italiani.
In più, fratello e sorella Wachowski non sono esattamente dei geni fra i cineasti. Innovatori, sì. Capaci di sperimentare, sì. Capaci però anche di fallire o di non riuscire a disciplinare la mole di forme e contenuti che vorrebbero veicolare, tre volte sì.
La trilogia di Matrix rimane un punto di riferimento, nel bene e nel male, per le visioni cinematografiche che l’hanno seguita. Pur non gridando al capolavoro, non sono mai stato un grosso detrattore di Neo & C. perché mi piace guardare giapponesi dentro a mecha che sparano a seppie robotiche e gente vestita da prete che se la dà di santa (appunto) ragione. Insomma, la mia estrema vicinanza all’estetica nipponica del “portiamo tutto alle estreme conseguenze” contribuisce molto al mio giudizio complessivo sulla trilogia dei Wachowski.
Per il resto, non credo sia meritato il suo valore di film culto. È un bel giocattolo, ma terribilmente furbetto. Segnatevi la parola “furbetto” perché riapparirà ancora nel corso di questo mio ennesimo delirio recensorio.
Per dire due parole sulle altre opere dirette dai Nostri (senza parlare di quelle sceneggiate e basta), Bound e Speed racer… beh. Bound mi è piaciuto perché sono un porcellone e di certo non ritengo Speed Racer così brutto come la gente lo dipinge. Oddio, per essere brutto è brutto ma ce n’è di peggio. Diciamo che è dimenticabile e questo è quello che gli è successo.
Bando alle ciance: vi presento Cloud Hanks (volevo dire Cloud Atlas) regia di Andy e Lana Wachowski assieme a Tom Tykwer, (che i più si ricorderanno per la rutilante regia di Lola Corre), tratto dal romanzo omonimo di David Stephen Mitchell (in italia pubblicato da Frassinelli).
Fin qui, come diceva quello, la fredda cronaca.
Oh, vi cito anche la sinossi del film, presa da wikipedia, tanto perché qui non ci facciamo mancare nulla: “Un’epica storia del genere umano nella quale le azioni e le conseguenze delle nostre vite si intrecciano attraverso il passato, il presente e il futuro come una sola anima è trasformata da un assassino in un salvatore e un unico atto di gentilezza si insinua nei secoli sino ad ispirare una rivoluzione”.
Ecco, letta questa sinossi già sentivo puzza di bruciato. I Wachowski come altri registi ultrapretenziosi (ne dico uno a caso: Ridley Scott) cercano ancora, come in Matrix, di farci passare un messaggio da baci perugina per un’epifania epica sulla verità universale. Beh, vabbé.
Allora: prima di tutto: cala trinchetto. Secondariamente, vediamo un po’ di cosa parla questo cavolo di Cloud Hanks. No, volevo dire Cloud Atlas.
Diciamo che è composto da sei cortometraggi interlacciati, ambientati in epoche diverse, che vado di seguito ad elencare cronologicamente (spoiler IMMINENTI):
- (1839, Oceano Pacifico) Un avvocato e un clandestino di colore, durante un viaggio in nave, si salvano la vita a vicenda e diventano amiconi;
- (1936, dintorni di Edimburgo) Un bohemienne libertino, aspirando alla fama sempiterna, va a fare da copista per un maestro compositore. Comporrà l’opera che darà il titolo al film e farà da leit motiv musicale per i vari episodi. Uhm. DOVREBBE fare da leit motiv dato che la si sente pochetto;
- (1972, California) Una giornalista indaga su un dossier riservato che potrebbe svelare (e lo farà) un complotto nucleare;
- (2012, da qualche parte nel Regno Unito) Un editore viene imprigionato dal fratello in una casa di riposo-lager;
- (2144, Neo Seoul) L’inserviente artificiale di un fast-food acquisisce autocoscienza di sé e delle condizioni delle sue “colleghe” grazie all’aiuto di un eroico capitano della resistenza, diverrà una profetessa per le generazioni successive;
- (Hawaii, 2361) Dopo l’apocalisse, una prescelta (appartenente ad un gruppo di sopravvissuti tecnologicamente avanzati), compie un viaggio assieme ad un autoctono arretrato e superstizioso per arrivare in cima al Mauna Kea per motivi che non spoilero.
Da notare che i personaggi principali di questi racconti portano il segno della “cometa” (una voglia che appare sul loro corpo) che ci fa presumere che siano la reincarnazione l’uno dell’altro.
Un calderone piuttosto ribollente di tutto e di più. Però è qui che il film dei Wachowski mi ha sorpreso e si è risollevato da quello che pensavo fosse la solita fetecchia new-age che fa sentire lo spettatore medio tanto intelligente.
Il montaggio delle varie parti è fatto molto, molto bene. Benché l’intreccio sia volutamente spezzettato e si passi (a volte arbitrariamente) da una linea temporale all’altra, benché, oltre a far questo, i Wachowski abbiano avuto la bellissima pensata di inserire in un meccanismo già complesso flash-back e flash-forward, la storia fila.
Un bel lavoro, un grande esercizio di stile che diverte, raramente emoziona (è un po’ difficile ma diciamo che ci arriva molto vicino) e, in sostanza convince.
Insomma: alla fine del film non ho provato quella sorta di strano bruciore posteriore che, nonostante avessi preso tutte le precauzioni del caso, ho provato distintamente in quei casi in cui il regista minge fuori dal vasino (un esempio a caso: Prometheus) e strafa perché il budget glielo permette.
In questo, Cloud Hanks (volevo dire Cloud Atlas) è un film onesto. Lo spettacolo c’è, la trama (per quanto ingenua) pure.
Oddio, non siamo certo al campionato dei pesi massimi del rigore narratologico. A volte qualche motivazione (soprattutto nell’episodio “iniziale” quello dell’avvocato e dello schiavo) manca, a volte la verosimiglianza va a farsi un viaggio a Francoforte (a meno che nel futuro sarà possibile che la polizia bombardi una strada per arrestare due fuggitivi in moto), a volte i personaggi hanno lo spessore dell’imene di Taide e si bloccano in uno stereotipo senza vita (la moglie dell’avvocato e tutti i minivillain interpretati dal plurirattristato Mariott… voglio dire, Hugo Weaving), a volte i “prestiti” da altri film sono fin troppo abusati (l’Allelluiah delle inservienti artificiali, troppo simile al Carousel di “La fuga di Logan”).
Altre volte però, la maggior parte direi, le cose funzionano e, con i chiari di luna che passano sul grande schermo in questo periodo, è sempre meglio di niente. I singoli episodi inoltre, presi per sé, sono una prova dell’abilità dei Wachowski di giocare con gli stili, i registri e le variazioni sul tema.
La mia “linea temporale” favorita rimane la quarta “The gahstly ordeal of Mister Cavendish”, con citazioni dal grande Lebowski, un protagonista (Jim Broadbent) sorprendentemente Billmurrayzzato (un plus per me) e un tono da commedia sulla terza età molto, molto efficace. Cavolo, Andy e Lana, se siete così bravi a far commedie, fatene una, no? Magari col vero Bill Murray.
Ecco: vi do l’idea del secolo, fate Ghostbusters 3. Son sicuro che non verrebbe una cagata (lo so, lo so sapientoni. Bill non vuole farlo. Rimane un’idea).
In più, in quest’episodio, c’è uno scrittore che getta un critico da un palazzo. Serve dire altro?
Fin qui, i pro. I contro però ci sono e non sono da poco. Vi ricordate quando parlavo di film furbetto? Ebbene, Cloud Hanks, anzi, Cloud Atlas, è un film furbetto e amen. La definizione del vocabolario di Alienone del termine film furbetto è questa: “Una pellicola poco sopra la mediocrità che citando un accozzaglia di credenze newage cerca di prendere per i fondelli pubblico e critica facendosi passare per un film serio”.
Matrix è un film furbetto ad esempio, ma chissene, se ci sono i giappo che sparano alle seppie a me va bene. Donnie Darko è l’esempio di un altro film furbetto, inutilmente intricato e carico di simbologie e teorie solo per dissimulare un vuoto di contenuti evidente ad un’analisi approfondita. Lost è una serie furbetta (almeno per quanto riguarda le ultime stagioni, dopo il fatidico “dobbiamo spostare l’isola”).
Non ho ancora capito se Neon Genesis Evangelion sia un anime furbetto o no, ma ci sono i robot giganti quindi va bene.
Insomma, ci siamo capiti. Un film furbetto è il corrispettivo dell’alchimista di Coelho: fa credere alla massa di aver esperito una cosa spiritualissima cioè che storie troppo fuori da oggi la mia vita è cambiata sediamoci in cerchio e stringiamoci le mani e si arroga maldestramente il diritto di mandare un messaggio universale sulla Verità con la V ultramaiuscola senza neppure scalfire di un centimetro la corteccia dell’albero della vita.
Il messaggio di Cloud Atlas, tra l’altro, è vagamente inquietante. Noi abbiamo un karma, le nostre azioni (negative e positive) si rifletteranno nelle nostre vite future dato che, come insegna il buon Satori, le anime trasmigrano e la morte (lo dice la profetessa-inserviente del penultimo episodio) è solo una porta che si apre. Bon.
Prima di tutto, come non vorrei che qualcuno mi dicesse quale tuta di latex regalare alla mia ragazza, non mi piace proprio che qualcuno mi serva tutto un pacchetto-spiritualità quando voglio vedermi un film in santa pace. Ho le mie idee sul cosmo, l’universo, l’anima, Dio e tutto il resto e sicuramente ognuno dovrebbe avere le proprie, possibilmente non mutuate da qualche bislacca, raffazzonata e maschilista religione monoteista tipo il cristianesimo.
In secondo luogo: visto che la morte è una porta verso un’altra vita, metti che un giorno le cose mi vadano male, mi pianto un proiettile in testa e resetto tutto o mi sforzo per migliorare la situazione? Uno dei protagonisti del film sceglie la prima, tanto “la morte è solo una porta”. Mah. Mi sembra una morale parecchio pericolosa, peraltro sostenuta da un bignamino di frasi fatte che, mischia Solženicyn, Castaneda, il principio di indeterminazione di Heisenberg coi già citati baci perugina.
In definitiva, i film furbetti di questo tipo sono i più pericolosi per la costruzione di un’identità spirituale matura. I riferimenti sono altri e, in larga parte, potete trovarli nel giro di qualche chilometro nel centro di Amsterdam.
Tiriamo le somme:
Consiglio Cloud Hanks (mi sbaglio sempre: Cloud Atlas) a chi vuole lasciarsi incantare per un po’ (beh, son più di due ore ma scorrono bene) da una struttura narrativa originale e ben eseguita e siano disposti a soprassedere alla mania di fare i guru di Andy e Lana.
Non lo consiglio a chi crede che vedrà un capolavoro cinematografico che rimarrà inciso nella memoria dei popoli. Cloud Atlas, per quanto si sforzi, per quanto a volte riesca ad apparire originale, rimane l’effimero capriccio di un modo di concepire il cinema in declino. L’ennesimo cerino carico di sogni ed illusioni che la piccola fiammiferaia chiamata Hollywood accende prima che il gelido e potente vento del cinema orientale arrivi a spazzare via tutto.
P.S.
Ah: dimenticavo, nel film c’è Tom Hanks. Parecchio Tom Hanks. Se vi piace tanto tanto Tom Hanks dimenticate quanto ho detto finora e andatelo a vedere.