Cold in July è la dimostrazione definitiva di come i romanzi di Lansdale oltre a essere grandissima narrativa possono anche essere grande cinema.

Quante volte ve lo sarete chiesto? E quante volte, leggendo gli articoli, le recensioni e gli approfondimenti dei ragazzi di Sugarpulp, siete stati d’accordo con loro nel pensarlo?

Perché non fanno film dall’universo narrativo di Joe R. Lansdale? Perché Hollywood o meglio ancora qualche regista indipendente non apre gli occhi e non si rende conto della miniera d’oro che avrebbe a disposizione?

Cold In July, la recensione in anteprima

A parte il super-cult Bubba Ho-Tep, diretto dal pazzo Don Coscarelli, con il compianto Ossie Davis e un Bruce Campbell in stato di grazia, non c’è stato molto.

Lo stesso Coscarelli adattò per la serie antologica Masters of Horror un altro racconto di Lansdale, Incident on and off a mountain road, episodio visto da noi col titolo Panico sulla montagna, mentre nel 2012 T. L. Lankford diresse un ultra low-budget, Christmas with the Dead, da un altro racconto della sterminata produzione dello scrittore, coinvolgendo nella realizzazione entrambi i figli di Joe.

Ma i romanzi? Perché non venivano mai presi in considerazione? Finalmente qualcosa è cambiato, grazie a uno dei nomi più interessanti e promettenti del nuovo cinema di genere made in Usa.

Jim Mickle, ragazzone trentacinquenne della Pennsylvania, ha diretto il suo primo lungometraggio nel 2006, Mulberry St., facendo subito intravedere grandi potenzialità.

Nel 2010 ha fatto incetta di premi nel circuito dei festival con Stake Land, mentre lo scorso anno è stato lodato dalla critica per il remake del film messicano di Jorge Michel Grau, We are what We Are.

Con il sodale Nick Damici, attore e co-sceneggiatore, avrebbe voluto girare un film tratto da Lansdale già alla seconda pellicola, ma ha preferito aspettare per poterlo adattare al meglio.

La scelta è caduta su Cold in July (Freddo a Luglio), pubblicato in Italia da Fanucci, thriller che parla di padri e figli, di morale e di vendetta, del sottile fascino perverso della violenza, di linee che non andrebbero mai oltrepassate.

Il tutto condito con la solita prosa colorita e precisa a cui Lansdale ci ha abituato negli anni, un’ambientazione manco a dirlo texana fino al midollo e un personaggio come quello di Jim Bob così azzeccato da ritornare in altri romanzi dell’autore.

Il lungometraggio è diventato realtà alla fine dello scorso anno, partecipando poi quest’anno al Sundance Film Festival e a Cannes, con una uscita estiva nelle sale americane e inglesi.

Intelligentemente Mickle ha scelto di non stravolgere il materiale di partenza, operando solo alcuni inevitabili tagli a qualche sotto-trama (l’ombra del padre suicida che il protagonista si porta appresso, il coinvolgimento della moglie nelle indagini) e qualche piccolo cambiamento (il modo in cui Richard e Russel iniziano a conoscersi meglio) a una storia che già sulla carta filava via liscia come l’olio.

Cold In July, la recensione in anteprima

Il cuore del film sta nelle interpretazioni del terzetto protagonista. Michael C. Hall, archiviata l’ultima imbarazzante stagione del pur glorioso Dexter, qui recita di sottrazione, caratterizzando il suo personaggio anche visivamente con piccoli tocchi stranianti (è lui che ha scelto l’orrendo mullet anni ’80 che il protagonista sfoggia, così come quei baffi appena accennati) e con qualche accenno rende bene quel tormento interiore che nel romanzo è sviscerato in lungo e in largo e qui suggerito e sottinteso.

Sam Shepard, ultimamente relegato in cammei e affini, risplende qui in un ruolo reso con pochissime, biascicate parole, affidandosi a sguardi che penetrano e a una prima parte dalle atmosfere inquietanti di sicura presa sul pubblico.

Ma la parte del leone, pur entrando in scena a metà film, la fa il redivivo Don Johnson, da qualche anno a questa parte capace di scelte oculatissime e di rubare la scena a molti anche con poco tempo a disposizione.

Una trasformazione la sua ancor più sorprendente se si pensa che solo nel 2008 ha toccato il fondo della sua carriera, tra l’altro qui in Italia, prendendo parte all’improbabile Bastardi, dal cast quanto mai eterogeneo e -ocio!- a Torno a vivere da solo di Jerry Calà, dove oltretutto era doppiato in maniera imbarazzante.

Manco a dirlo molti indicano come salvatore il solito Tarantino, che lo ha voluto in Django Unchained, ma il vero merito andrebbe a Robert Rodriguez che nel 2008 gli affidò il ruolo di Von in Machete (nel cui trailer se vi ricordate un cartello sentenziava ironicamente “introducing Don Johnson”!).

Oltre al southern western di Tarantino c’è stato anche il ruolo del padre del protagonista nell’irresistibile serial targato HBO Eastbound and Down e quest’anno di nuovo Rodriguez lo ha richiamato per il ruolo del ranger Earl McGraw, che fu di Michael Parks nella serie tv di Dal Tramonto all’Alba per il suo network El Rey.

Cappello da cowboy, stivaloni e camicia da ranchero, Johnson è semplicemente perfetto nei panni di Jim Bob, dispiace solo un poco che Mickle e Damici (che nel film è lo sceriffo Ray) hanno scelto di asciugare tutta una serie di battute triviali ma esilaranti che Lansdale gli metteva in bocca nelle sue pagine. Ma a parte questo dalla sua entrata in scena il film, che già non difettava in ritmo, schizza come un proiettile fino alla fine.

Completano il cast Vinessa Shaw (attualmente nella seconda stagione di Ray Donovan) nel ruolo di Ann la moglie del protagonista, un po’ in ombra, e Wyatt Russell (figlio di Kurt), già con Mickle nel film precedente, in quello di Freddy.

Cold In July, la recensione in anteprima feat

Tutti i colpi di scena sono stati mantenuti, l’ambientazione anni ’80 si fa sentire e Mickle sa come valorizzarla al meglio. Ma oltre la direzione degli attori e molti movimenti di macchina di puntuale geometria della suspense, sono due le scelte artistiche che fanno la differenza.

La fotografia di Ryan Samul, al quarto film su quattro col regista, è davvero magnifica ed esalta tanto le scene buie e di pioggia quanto quelle in pieno giorno, fino all’esplosivo finale che è un tripudio di colori oltre che di pallottole.

Mentre lo score di Jeff Grace si insinua sottopelle tanto è riuscito e riesce ad evocare sia un’epoca ben precisa come quella raccontata, sia le celebri colonne sonore del John Carpenter di quegli anni (e anche i titoli di coda sono nello stesso carattere di quelli di Fuga da New York, Fog ecc.), grazie all’uso del sintetizzatore.

Oltre ai brani strumentali inoltre ci sono in colonna sonora un paio di ballad eighties e due brani di Kasey Lansdale che oltre ad essere la figlia di Joe è una musicista country davvero niente male.

In questo senso Mickle ha concepito il film come un grande omaggio a un certo cinema anni ’80 e primissimi ’90, cercando di fare per il southern thriller quello che Refn ha fatto per il noir losangelino col suo Drive (tra l’altro la sorella del regista, Beth Mickle, era scenografa nel film di Refn).

Ancora una volta Damici e Mickle hanno portato a casa un risultato eccellente e questo è il film che da promesse li tramuta in certezze del cinema di genere. Insieme a Jeff Nichols, Mickle è il nome più interessante degli ultimi anni, senza dubbio alcuno.

Quindi l’annuncio che sarà lui a portare in tv Hap e Leonard, l’amatissimo duo protagonista della serie di romanzi di Lansdale non può che fare felici i suoi lettori, la loro coppia preferita è in ottime mani. E chissà che, ora che la prima stagione sta entrando in produzione per il Sundance Channel, non torni anche Johnson col suo Jim Bob in carne e ossa.

In conclusione Mickle ha finalmente dimostrato come i romanzi di Lansdale oltre a essere grandissima narrativa possono anche essere grande cinema. Speriamo che Hollywood abbia finalmente aperto gli occhi.

Il buon vecchio Joe da par suo non ne ha mai fatto una malattia, giustamente. Lui le sue storie le ha raccontate e continua a farlo. Se vorranno adattarle sarà solo un divertimento in più come mi disse una volta durante un’intervista.

A proposito: nel film c’è anche lui, ma dovete aguzzare la vista e prestare attenzione: è un’apparizione di pochi secondi, ripreso in campo lungo, senza manie di protagonismo, in punta di piedi com’è il suo stile nella vita di tutti i giorni, a ulteriore riprova – semmai ce ne fosse ancora bisogno – della sua autenticità e unicità di persona e di uomo prima ancora che di personaggio e autore.

 Guarda il trailer di Cold in July su Youtube