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Intanto la signora Rita aveva fatto conoscenza con colui che, temeva, sarebbe stato il suo assassino. Tenendola sotto la minaccia del coltellino svizzero con cui la donna andava a funghi, egli la costrinse ad accompagnarlo a casa sua. Qui l’aveva legata alla poltrona del soggiorno.
-La prego non mi faccia del male,- piagnucolava la donna, -le darò tutto il denaro che ho. La posso medicare. La prego, mi risparmi la vita!
L’uomo buttò l’occhio su uno specchio appeso alla parete: sembrava che avesse una bistecca di manzo adagiata sulla fronte. In un armadietto della cucina egli trovò tutto l’occorrente per occuparsi della ferita: punti di sutura e garze.
-Sono di mio marito, aggiunse Rita – era infermiere, è morto d’infarto tre anni fa.
Il rapitore sigillò la bocca della donna con del nastro adesivo, afferrò una bottiglia di vodka di sottomarca appoggiata sul carrello dei liquori e si ritirò in bagno, da dove se ne uscì un’ora dopo con il capo ricucito. Stravolto, si gettò sul divano e si addormentò.
Si svegliò il giorno seguente. L’ostaggio, con l’angoscia negli occhi, lo pregava di liberarla.
-Io risparmio la vita a te. Tu mi aiuti nel mio piano.- Dichiarò il rapitore. La signora Rita annuì e Yuri Maric le strappò il nastro dalle labbra.
Quando fu il momento, la costrinse ad indossare un vestito da sera, delle scarpe col tacco e le chiese dei vestiti puliti per sè. Frugando nell’armadio del defunto marito, trovò dei pantaloni sportivi, una camicia di cotone e un panamà. L’insieme non era dei migliori, ma bastava per rendere il signor Maric irriconoscibile. Inoltre la compagnia della donna lo avrebbe facilitato: entrando al Lolita così conciati, i due sarebbero apparsi come una coppia attempata in cerca di piccanti distrazioni.