Il nuovo realismo di César Baldaccini fa crash: macchine e sessualità, di Silvia Contro.
“Vaughan mi svelò tutte le sue ossessioni in materia di misterioso erotismo delle ferite: la logica perversa dei cruscotti intrisi di sangue, delle cinture di sicurezza spalmate di escrementi, di parasole bordati di materia celebrale.”
J. G. Ballard, Crash, 1973
Spiegare le forme artistiche che appartengono al mondo del “concettuale” non è mai stata cosa semplice, soprattutto se ci si trova davanti ad un pubblico di scettici. Le motivazioni possono essere fra le più svariate: innanzitutto, il termine in sé ha assunto una molteplicità di significati, tanto da dover distinguere i fenomeni in due filoni principali, ovvero quello dell’ “evento” (Happening, Performance, Land Art, Body Art, ecc.) e quello del “pensiero” (New Dada, Nouveau Réalisme, Arte povera, Minimal Art, Arte Concettuale alla Kosuth, Narrative Art, ecc.).
In secondo luogo, perché è decisamente difficile far accettare questo tipo di espressioni come delle forme d’arte vere e proprie. Di fatto, il mondo del “concettuale” fu la rottura dell’ultimo tabù nel mondo dell’arte, tassello finale di un percorso fatto di “riduzioni” o “privamenti” che l’arte affrontò, in una sorta di percorso progressivo lineare, lungo tutto il ventesimo secolo. Un po’ alla volta si procedette facendo a meno di qualcosa: il naturalismo, la prospettiva, il passato, il valore venale, la realtà, la forma. Fino ad arrivare ad un’arte che fa a meno dell’opera stessa, dove tutto può essere espressione artistica, anche ciò che fino al giorno prima finiva nel cestino dei rifiuti.
Detta così, in effetti, è difficile dare torto a chi obietta nei confronti di un effettivo valore estetico di certe opere definite tali senza evidenti meriti. Eppure alcuni esperimenti artistici di questo filone sono piuttosto geniali, e non troppo distanti da altri tipi di espressione culturale che videro la luce contemporaneamente ad essi: parlo di musica, cinema, letteratura.
Vi faccio l’esempio dello scultore francese César Baldaccini, nato nel 1921 e conosciuto nel mondo semplicemente come César, le cui opere non sono altro che le officine reali dell’immaginario narrativo di Crash, il libro di James Graham Ballard, datato 1973.
Il testo ebbe molto successo, e nel 1996 il regista canadese Cronenberg lo trasformò in un film che vinse il Premio della Giuria al Festival di Cannes dello stesso anno. César, invece, è un nome leggermente in ombra, citato certamente meno dei suoi colleghi più famosi, come Robert Rauschenberg o Jasper Johns. Cronologicamente parlando, César inizia le sue sperimentazioni intorno alla metà degli anni Sessanta, quindi almeno sei anni prima della prima pubblicazione del testo di Ballard, e non è detto che lo scrittore non possa aver tratto ispirazione per il suo libro proprio guardando una delle famose compressioni di tubi e macchine dello scultore francese.
L’originalità di César sta nel fatto che il suo ateliér non è uno studio da pittore, ma una vera propria officina industriale. I suo pennelli e i suoi tubetti di colore sono in realtà presse, saldatrici, torchi, martelli, tenaglie e trapani. A inizio carriera, come il collega Stankiewicz, César si dedicò all’assemblaggio di materiali metallici, creando sculture figurative rappresentanti animali, con uno stile che ricorda un po’ la musica heavy metal.
La sua evoluzione artistica passò attraverso la strada prettamente concettuale, mescolandosi con le precedenti esperienze informali che prevedevano l’annullamento della raffigurazione comprensibile (informale è, infatti, un’arte che fa a meno della “forma”): come per l’epoca Beat, dove l’On the road di Kerouac aveva fatto scuola, anche le opere di César corrono lungo la carreggiata della strada, acquisendo una vera e propria ossessione per l’automobile. Una sorta di desiderio maniacale, un disturbo ossessivo-compulsivo verso questo oggetto materiale che è da tempo un’icona pop, tanto che sembra ormai avere ottenuto il diritto ad avere un’anima, oltre che un corpo fatto di ferraglie.
Un’auto viva, l’immagine di un moderno Pinocchio, burattino di legno che per magia divenne un bambino vero. Il bellissimo libro di Ballard mise per iscritto questa mania per l’automobile, descrivendola come una specie di strana attrazione erotica: la stessa cosa fece César, che nelle sue sculture manifestò tutta l’eccitazione che può essere scatenata da un cofano schiantato, da delle lamiere contorte o dal disegno casuale prodotto da una capote sfondata. Citando lo stesso Ballard, in un’intervista in cui parla dei protagonisti del suo libro, potremmo dire che (nelle opere di César così come in “Crash”) “scontro automobilistico e sessualità s’erano unite in un matrimonio definitivo.” (J. Ballard, Crash, trad. it, Bompiani, Milano 1996, pp. 8-9.)
Le “compressioni” dello scultore non sono altro che rettangoli di ferraglie intrisi di desideri perversi, fatti di intestini di materiali rottamati, ai quali l’azione violenta dello scontro brutale e distruttivo dona una pulsione primaria, quasi vitalistica. Azioni forti e violente per far rinascere le due pulsioni primordiali, l’Eros e Thanatos di un oggetto che prende vita, esce dagli schemi della routine quotidiana e va, senza freni, verso lo schianto, alla ricerca di un’eccitazione perduta. Le compressioni metalliche di César, così come le automobili sfondate di “Crash”, sono un groviglio di ferraglia dentro la quale batte qualcosa di indefinito ma vivo, come una sorta di respiro ferroso e tintinnante.
Il climax d’evoluzione di César si concluse con la serie delle “Espansioni”: colate informi di materia bollita, una sorta di flubber ormonale che cola e avvolge tutto, proprio come un bicchiere pieno di libido e desiderio allo stato liquido. Le “Espansioni” sono egualmente accomunabili alla morbosità sessuale di Crash: sono masse di poliuretano fuse, ovvero una materia artificiale – industriale resa poltiglia amorfa, ma con il ricordo di un passato caldo e vitale alle spalle. Proprio come le auto di Crash, appena dopo lo schianto.