Crimes of the future: siamo diventati obsoleti? Una riflessione / recensione di Carlo Vanin sul nuovo film di David Cronenberg

Quanto ce la siamo spassata in gioventù, durante quelle giornate al mare piene di avventure e scoperte assieme agli amici più cari? I falò sulla spiaggia, il gioco della bottiglia e quella volta che stavamo piantando la tenda ed è arrivato un vento fortissimo e siamo rimasti come quattro deficienti a tenere i paletti in mano col telo che svolazzava minacciando di volare via…

Eppure… eppure non è andata proprio così, vero? Eppure quel giorno vi siete scottati al sole  tanto che avete avuto la febbre per tutto il resto della vacanza. Eppure poi siete quasi venuti alle mani con dei tizi perché eravate strafatti. Eppure dopo quella volta della tenda avete deciso mai più campeggio perché ve la siete passata malissimo e avete litigato di brutto. Che bei ricordi! No?

Eppure.

E i film… i film di allora. I nostri cari film di mostri. Il mostro dentro al cestino del ragazzo nell’autobus. Gli orrori  di From beyond con le anguille fluttuanti, il verme che esce dalla testa, la creatura finale e le sue aberranti trasformazioni. E sappiamo tutti che se pratichiamo una defibrillazione, lo stomaco del nostro paziente potrebbe aprirsi e rivelare una bocca piena di denti aguzzi, no? Mostri che rimangono, i nostri mostri, come dicevo. Ci si divertiva un sacco. Ci si divertiva, ci si terrorizzava, ci si allucinava un sacco ai vecchi tempi. Bei tempi, quelli.

Eppure.

Hauntology, ricordo paludato di un passato che forse non è mai esistito, nostalgia per un futuro mai realizzato.

Nel nostro futuro, nelle nostre vecchie distopie di allora, c’era quasi sempre la carne. Quando eri un adolescente negli anni ’90, la carne era il piatto del giorno e Cronenberg il tuo chef stellato. Carne che si fonde alle macchine, che goduria. I cyborg riluttanti, come furono il vecchio Alex Murphy e il dolente Kyashan, erano i nostri eroi, coloro che avevano quasi domato la macchina. Kaneda e la sua moto eravamo noi, o almeno lo sognavamo, con la toppa a forma di pasticca sulla giacca rossa, forti abbastanza da non soccombere alla nuova carne di Tetsuo, carne indisciplinata che stritola, si contorce, prolifera in tumori, irradia ed esplode. E l’altro Tetsuo, poi, quello fatto tutto di urla e cavi selvaggi, di peni-trivelle e microbiomi di chip e transistor.

La trasformazione della carne è un processo necessario e doloroso. Inconsciamente, sapevamo che era giusto così, lo capivamo tutti. E capivamo Cronenberg, perché Cronenberg ci mostrava la trasformazione nel modo più semplice possibile. Non metafore, ma allegorie. Pistola e mano. Insetto e corpo e macchina. Lamiera e carne. Facile. Bellissimo. Illuminante come tutte le cose semplici.

Eppure.

Cronenberg faceva al nostro corpo quello che Lynch faceva alle nostre teste. Quello che Lovecraft ci raccontava e Clive Barker ci ribadiva. Quello che Giger dipingeva col suo aerografo.  Bei tempi, quelli.

Eppure.

Eppure il 4 febbraio 2004 uno studente diciannovenne di Harvard diede vita a Thefacebook e il nostro corpo, la nostra carne, svanirono d’improvviso. Si nullificarono.

Quello che seguì non era il futuro che avevamo temuto e sognato. O forse lo era, ma i desideri e le paure non si realizzano mai come te lo aspetti.

Nessuno si curò di mantenere le promesse e La generazione X divenne la più tradita dalla storia.

Bye bye corpo

Con l’avvento dei social, il nostro corpo si smaterializza. La nostra testa smette di concentrarsi sul fuori e comincia a fare loop su se stessa. L’io si moltiplica in miliardi di iconcine formate da entità immaginarie di presenza (1) e assenza (0). Proliferano immagini dell’immagine di me. Meme. Unità di comunicazione in grado di propagarsi e auto-sostentarsi prive di corporeità.

Non carne, né corpo. Non organi, né fibre. Non mostri, ma linguaggio, anzi, frammenti caleidoscopici di linguaggio. Il postmoderno, che aveva presentito l’avvento di questo strano futuro grazie a Borges, Eliot e Joyce, cerca di intervenire e dare una direzione al caos, ma si schianta a causa della sua stessa gravità. Diventa post-esotico, letteratura di un mondo futuro nel cui passato c’è stata una catastrofe incomprensibile e l’unica cosa che rimane ai sopravvissuti è quella di raccontarsi storie incredibili di quel passato, incredibili perché probabilmente mai accadute.

Cronenberg e Warhol fanno braccio di ferro nel cielo e vedo che il secondo schianta la mano del primo su una specchio. Pop significa popular, sì, ma è anche l’onomatopea di un piccolo scoppio.

Crimes of the future, tra Gibson e Meta

Dopo la visione di Crimes of the future mia moglie mi ha chiesto: “Ma secondo te, cosa penserebbe un ragazzo di oggi di questo film”?

Be’, probabilmente lo liquiderebbe con un “ok, boomer”. Non è roba mia, penserebbe il ragazzo di oggi, il post-millennial, non sono io questo. Queste sono le paranoie dei miei vecchi. I loro giocattoli rotti. Io non sono qui, continuerebbe, in questa carne, io sono lì, in quel video in cui ballo, in cui sbuccio una banana in un modo strano, in cui canto, io sono in quel video ripetuto miliardi e miliardi di volte, sono nella rete. E la cosa sorprendente e triste è che la “rete” non è neppure quella predetta da Gibson e dal movimento cyberpunk. Questo presente non è connotato da un cyberspazio in cui si può navigare, è un’altra cosa.  Lo testimonia il parziale insuccesso di “Meta”, la creatura nata dal padre dei social, il diciannovenne di cui sopra. 

“Meta” è un’operazione conscia che promana da quel passato in cui abitavamo, Facebook, invece, si è quasi auto-generato da una necessità. I social sono l’infosfera che ha preso autocoscienza e se il parallelo con Skynet sembra facile, ebbene, ricordiamoci che Skynet aveva bisogno di missili e cyborg assassini, mentre Facebook e progenie hanno solo bisogno di affermare la loro esistenza per farci diventare sudditi. Se Skynet non ha bisogno dell’umanità, l’infosfera vive attraverso di noi, ma non siamo le sue batterie, come in Matrix, siamo in effetti le sue capsule di Petri. Non siamo coltivati in campi, siamo noi i campi in cui l’informazione viene coltivata.

Informazione, non corpo. Di noi restano solo occhi, dita e profilo social. Il corpo è solo uno tra i vari strumenti plug and play di cui disponiamo e neppure il più importante. Se lo chiudo in una stanza e lo nutro il tanto che basta a sostentare la mia funzione di produttore d’informazione, è sufficiente. Non a caso, il genere di anime più diffuso in questo momento in Giappone è l’isekai (letteralmente “mondo differente”) in cui i protagonisti sono spesso hikikomori trasportati in una realtà virtuale a vivere fantastiche avventure abbandonando il proprio corpo.

In più, concluderebbe il post-millenial di cui sopra, questa parola “futuro”, è una parola solo vostra, è una parola obsoleta. Per me non esiste il futuro, esiste solo questo presente infinito, quest’attimo uguale a se stesso ripetuto che echeggia e si propaga occupando tutto il tempo e lo spazio a disposizione.

Saul Tenser è il nostro eroe, però è un eroe obsoleto

Saul Tenser, l’uomo che iper-evolve, protagonista di Crimes of the future è il nostro eroe. La summa di tutti i nostri eroi, in effetti. Si veste addirittura come un ninja, figura iconica del nostro passato, guerriero invincibile e saggio.

A differenza di Murphy e Kyashan, però, Saul smette di essere riluttante e la grande epifania della nuova carne lo porta alla trasfigurazione.

Però, oggi, Saul è un eroe obsoleto. Vive in un “futuro-del-passato” che sappiamo irrealizzato. La sua dis-utopia è fuori dal tempo, non riguarda noi, non riguarda l’oggi, non è vera perché ciò che davamo per scontato in quei giorni (forse) spensierati era che l’unica cosa vera su cui potevamo contare, la carne, oggi non è più vera. Nella notte della post-verità, tutte le informazioni hanno lo stesso valore. Vero e falso non sono più categorie utilizzabili. Il corpo, la carne… siamo sicuri che esistono? Non notate anche voi che ce ne possiamo dimenticare per periodi sempre più lunghi?

E senza carne… niente più morte. E niente più sesso.

Poco ci importa quindi che “la chirurgia è il nuovo sesso” perché sì, magari lo è stata, ma si tratta di tanto tempo fa, quando il termine “sesso” aveva un valore prioritario. Nel presente, invece, si sta parlando addirittura di “recessione sessuale”. I giovani non fanno più sesso, ci viene detto. La parabola discendente del cyborg è la stessa di Ataru Moroboshi, il giovane pervertito perennemente infoiato. Le nostre icone vengono spazzate via una dopo l’altra.

Crimes of the future non è fuori tempo massimo, è fuori tempo. È perpendicolare alla nostra linea del tempo, non parallelo. Non è un canto del cigno del cinema che amavamo, è un involontario esercizio di hauntology, un po’ come un album dei Boards of Canada, un paradossale reperto nuovo di zecca. Diversamente dalle serie TV che ripescano e rimacinano il nostro immaginario come Stranger Things, il film di Cronenberg è DAVVERO un film della fine degli anni ’80/inizio ’90. Il prodotto puro, non adulterato di un passato che non è mai esistito, semplicemente perché il futuro a cui tendeva è stato spazzato via.

È la foto di quattro ragazzi e una tenda.  Sembravamo felici in quella foto, no?

Eppure.

Eppure non abbiamo neppure la consolazione di poter dire “quel periodo è finito”, perché senza carne, non c’è morte e nell’oggi eterno, tutto è immortale, tutto viene ripetuto nel gioco di specchi dell’infosfera e tutto ritorna. 

Pensavamo di dover avere paura della morte, ma quello che non avremmo mai pensato di dover temere, invece, è l’immortalità.