Di cosa parliamo quando scriviamo, una riflessione di Claudio Mattia Serafin sullo lo stato dell’arte in narrativa.
You can’t judge a book by looking at the cover si dice saggiamente nei paesi anglofoni: non giudicare il libro dalla copertina, una massima di vita che si estende ben al di là della cultura e della letteratura.
Eppure è proprio quel che si tende a fare, specialmente quando si va di fretta e si vuole prendere al volo qualcosa da leggere. Sia nelle librerie che dagli scaffali di casa, prima di andare a dormire: l’importante, almeno per chi è appassionato di letture, è leggere qualcosa, non importa cosa.
Certo, poi il discorso si complica, e non appena si sfoglia in maniera incauta si viene investiti in maniera proporzionalmente inversa da una serie di dati, tecniche letterarie, trame più o meno efficaci, generi letterari che si sovrappongono, si contraddicono, e in fondo questo è il bello della vita del lettore.
Al contrario, coloro che dominano le tecniche di redazione ed esposizione del flusso narrativo (di solito insegnanti, editori, scrittori, giornalisti, ecc.) sanno districarsi molto bene, ma spesso sono soggetti a sensazioni di noia e di vacuum, perché in fondo hanno letto e riletto tutto ciò che vale la pena di esaminare in questa vita.
Narrare?
La narrazione da sempre, nel bene e nel male, è cosa che non si può addomesticare, soggetta dunque alla libertà, all’arbitrio e alla poetica che l’artista o l’autore possono offrire. Vero è che nei secoli passati il racconto (soprattutto fiabe, favole e miti) è qualcosa di arcaico e magico, un effettivo dono, mentre con l’avvento della modernità (ad avviso di scrive è inutile distinguere quest’ultima dalla pretenziosa dizione di post-modernità) e degli psicologismi più o meno opportuni quest’arte del narrare ha fatto perdere il controllo agli autori.
Fascinosa era l’idea di una Mittel-Europa interiorizzata, ideata a cavallo tra Ottocento e Novecento (da Stefan Zweig a Sigmund Freud): questi grandi intellettuali cercavano a modo loro di superare gli idealismi fuori tempo massimo di Kant, Hegel e della politologia che si mischia alla filosofia, e viceversa.
Come al solito, il modo migliore per fare filosofia consiste nell’evitare di utilizzare la relativa branca, di per sé scivolosa, e di effettuare speculazione, magari, con la pittura o la fantascienza: si possono ritenere pregni di filosofia tanto gli impressionisti quanto Ariosto, per dire.
E poi c’è il tanto vituperato aspetto etico: se si vuole cedere a una provocazione, dunque, un giovane lettore potrebbe faticare a distinguere James Joyce da Anna Todd (!) della serie di After, quando entrambi affrontano, a modo loro, i tormenti erotici che spesso possono affliggere l’animo umano.
Certo non bisogna trasformarsi in un ufficio censura, ma chi scrive dovrebbe avere il controllo di se stesso, proprio come lo ha un musicista sul palcoscenico o un grande oratore pubblico. In questo senso il romanzo borghese potrebbe essere designato come fenomeno (anti)storico, da collocare con precisione nel suo contesto, di evidente rinuncia all’afflato epico che è proprio tanto degli esseri umani quanto del mondo naturale. E per altri versi in tale cornice si inserisce un tardo e debolissimo edonismo (sarebbe divertente quantomeno vederlo consumato appieno), mal compreso ovviamente da coloro che non partecipino a questa bizzarra libagione.
Le inquietanti illusioni del giallo
Per tale ragione l’editoria europea (si faticherebbe a includere quella statunitense o quella orientale) ha effettuato negli ultimi decenni una scelta di campo, ovverosia quella di offrire al suo pubblico – ahinoi in diminuzione, e l’editore è pur sempre un imprenditore – vicende che appartengono senza dubbio alla proverbiale esistenza d’ombra: omicidi, suicidi, criminologia patinata (la disciplina penalistica in fondo è troppo noiosa e nota a pochi), violenze di vario tipo e degrado urbano, caratteri che del resto ben descrivono i contesti in cui ci si muove e si opera quotidianamente.
Vero è che chi scrive non ritiene che il giallo e la suspense siano uno specchio della società, anzi: ne sono casomai un’espressione del tutto settoriale. La ragione risiede nel fatto che le grandi percentuali di consociati hanno a che fare con relazioni umane, lavorative, sentimentali, qualche dubbio identitario. È difficile che ci si ritrovi a visionare cadaveri o a essere testimoni di situazioni indicibili; nella vita odierna è più facile pensare a contesti glam, o grotteschi.
Insomma si è più dalle parti della commedia da camera, della farsa, se vogliamo del dramma, rispetto alle vicende trucide o innominabili. Ergo si può concludere che l’ironia e l’umorismo (da tener distinti rispetto alla comicità) sono buoni analisti della modernità, piuttosto che il pianto e il cordoglio ininterrotto. Del resto, queste forme di espressione hanno radici antichissime, dal momento che il riso è anzitutto utilizzato da commediografi greci e latini, riso da intendere come forma di emotività e declinazione drammaturgica. Ridere può essere una manifestazione psicologica, filosofica, ad ogni modo onnicomprensiva degli aspetti del tanto decantato “reale”.
Tra fantasia e tradizione storica
Alla luce di quanto affermato, come sempre le generazioni più avvedute, istintuali (quelle giovanili) si sono orientate verso narrazioni e contesti di matrice fantastica, avventurosa, divertente, sopra le righe eppure intensissima, quasi sempre profonda; è di certo il grande cinema popolare (la Marvel o i feuilleton storici) o anche quello sofisticato, per certi versi le sit-com o gli anime, a dettare legge, a espandere gli orizzonti, rispetto alla letteratura. È casomai la letteratura che poi si adegua a questi canoni.
Insomma tutto ciò che va a comporre un mosaico colorato e democratico, che restituisce voce agli entusiasti e a coloro che, in fondo, disegneranno il futuro assai più della classe dominante, se non altro per ragioni cronologiche. Tramite tale mosaico si trascende, ovverosia si provano sensazioni che allontanano dalla mortalità e fanno dunque sfiorare archi alti, di avvertita immortalità e di ripetizione temporale: in breve tutte le meraviglie di cui è capace l’intelletto umano quando realizza un impianto tensionale e inarrestabile, al fine di superare o quantomeno di allontanare la sua inevitabile finitudine.
Discorso a parte invece meritano le recenti serie televisive high-concept (così definite dalla scittrice Emma Cline), che casomai hanno salvato quel che resta del succitato romanzo borghese, mettendo in scena drammi familiari, qualche piccolo intrigo di potere e altri tipi di vicende adult-oriented.
Sciocco da un punto di vista comunicativo, perché se non altro in ottica di strategia è sempre bene parlare a fasce d’età che vadano dai tre ai cento anni, al fine di assicurare un pluralismo democratico che di suo dovrebbe essere innervato in ogni tipo di operazione culturale.