Ok, l’attesa è finita e Django Unchained è arrivato e, come recitava una vecchia canzone, “la festa appena cominciata, è già finita

Già, perché se alla vigilia del “dì di festa” le aspettative sono alte, dopo la visione di questo ultimo Tarantino te ne torni a casa con un senso di vuoto che ti fa pensare che ciò che Quentin ha accumulato in adipe, lo abbia perso in idee.

Giusto per fare un raffronto, siamo lontani da Bastardi senza Gloria e dai suoi colti rimandi cinematografici, e siamo lontani anche dai barocchismi di Kill Bill. Tanto per citare i due ultimi più famosi blockbusters di QT.

Questo Django è come il protagonista del film: uno schiavo incatenato ad una catena/sceneggiatura troppo lunga e senza particolari guizzi. Uno schiavo che, se scatenato, avrebbe potuto dare di più, molto di più.

Sia chiaro, il film diverte ed è godibilissimo, ma se andiamo in cerca del Tarantino-touch, beh, bisogna usare il lanternino.

Cosa ha voluto fare QT con questo film? L’omaggio agli spaghetti western? E dove sta questo omaggio, oltre al titolo della pellicola ed alla colonna sonora?

Forse è celato nella violenza che percorre tutto il film, da quella ultra-splatter (Peckinpah del Mucchio Selvaggio?) a quella fisica, e compiaciuta, quasi da torture-porn.

Forse sono suggestioni derivate da certo western italiano post-Django, caratterizzato da una violenza esasperata che fino ad allora mai si era vista (Tepepa, Se sei vivo spara, Matalo!, per fare alcuni esempi).

Per inciso, alcune scene della tratta e delle torture dei neri ricordano un Mondo-movie di Jacopetti (Addio Zio Tom, mi pare, o Africa addio).

E non mancano neppure il grottesco e la comedy, che forse sono pure troppi. Ecco, a modesto avviso di chi scrive, Quentin si è lasciato prendere troppo la mano su questo versante, rispetto alla storia di vendetta che voleva raccontare sullo sfondo violento della schiavitù: quasi abbia voluto stemperarne la portata generale con una risata.

Creando così un ibrido, intento (forse) rivelato dalla gag spaccona nel finale, accompagnata dalla note di Trinità.

Ma la miscela non è esplosiva, purtroppo.

Sono solo due attori, con le loro interpretazioni, a tenere in piedi il film: Waltz (ancora una volta immenso ed istrionico) e S.L. Jackson. Di Caprio, psico-villain di turno, non è male ma poteva fare meglio. Jamie Fox, sprecato: al suo posto poteva esserci anche Willy “Dumbo” Smith, e non sarebbe cambiato nulla.

Di tutto il resto, resta impresso poco. Vado a memoria: la scena dei cappucci, il negro sbranato, il massacro, e qualcos’altro.

Manca sempre qualcosa, in questo pacco molto ben confezionato. E lo si percepisce sin dall’inizio. L’incipit che introduce i protagonisti, lasciato ad un lungo monologo dell’ormai iconico Waltz, non raggiunge lo spessore dell’intro di Inglorious Basterds (una delle migliori di sempre, a mio parere).

In Django Unchained manca proprio ciò che, secondo me, rappresenta la cifra stilistica di QT: i dialoghi. Astratti, astrusi, laconici o logorroici, grevi ed eleganti allo stesso tempo, che tu stai lì, affascinato, ad ascoltare cercando di coglierne il nesso, per poi accorgerti che stanno parlando del nulla (una barzelletta, Like a Virgin di Madonna, la maionese sulle patate fritte, un massaggio ai piedi alla persona sbagliata, Superman, un confronto tra negri e siciliani o tra ebrei e topi, e via discorrendo). Roba che si ricorda. Invece, dopo Django esci dal cinema e non ricordi nulla, se non la battuta “la d è muta”.

Muta come questo film, che non dice nulla e che, ritengo, non si possa annoverare tra la migliore produzione tarantiniana.

Voto 6.

TRAILER UFFICIALE

DJANGO L’originale!

DJANGO UNCHAINED visto da Giorgio Cracco