Django Unchained è una film guascone e spavaldo che polverizza l’ultima frontiera del Western e della coscienza con intelligenza e ironia
Ancora qui. Come recita la bella canzone di Elisa, scritta da Ennio Morricone per la ricchissima colonna sonora del film, Quentin Tarantino e la sua versione pulp del cinema e della natura umana sono tornati. Ed è, come per il precedente “Bastardi senza gloria” del 2009, un ritorno alla grandissima.
Django Unchained, che con i 165 minuti di questo final cut è il film più lungo del nostro, prende di mira una delle tante, vergognose pagine della storia ingiallita di fresco della più grande democrazia del mondo e, come ci si poteva legittimamente aspettare da un autore di cotanto calibro, centra in pieno il bersaglio.
La trama si svolge un paio di anni prima della guerra di secessione, il grande bagno di sangue che avrebbe spezzato in due gli Stati Uniti dal 1861 al 1865, mandando in frantumi, una volta per tutte, le ignobili catene degli schiavi.
Lo schiavo liberato Django (un ottimo Jamie Foxx), con l’aiuto del suo mentore e alleato, il Dr. King Schultz (il magnifico Christoph Waltz, la cui classe recitativa sta diventando una piacevolissima abitudine), intraprende il classico viaggio dell’eroe alla ricerca della donna amata, la moglie Broomhilda (Kerry Washington, in un ruolo che non le consente eccessivi voli attoriali), finita tra le grinfie del crudele Calvin Candie (Leonardo DiCaprio, luciferino e schizzato, che qui si fa perdonare il gran rifiuto per il leading role nell’“American Psycho” da Bret Easton Ellis).
Partendo da uno spunto collaudato, Tarantino, con sagacia e senso del ritmo, si prende tutto il tempo necessario per inscenare il suo grottesco omaggio all’immaginario del West, filtrato attraverso l’estetica e gli stilemi degli amati spaghetti western, conducendo, allo stesso tempo, una saporita ballata sadica tra le pieghe oscure dell’America, con il dito puntato contro la vile, secolare attitudine dell’uomo a fare violenza ai propri simili.
Quello che emerge, è un ritratto (dell’umanità) insieme tragico e ridicolo che, pur tra varie asprezze, non può che trasformarsi continuamente in farsa, come di fronte alla mediocrità imbecille dei razzisti a cavallo capitanati da Big Daddy (Don Johnson, che qui va oltre i noti vizi di Miami, per farsi portabandiera di quelli colpevolmente trascinati per più di un secolo da una nazione intera), nella grandiosa gag dei cappucci, o come in tanti altri piccoli momenti di apparente leggerezza (la selvaggina umana abbandonata sulle selle da Django e Schultz per approfittare della torta nella capanna tra le nevi, o il centinaio di paesani armati e perplessi che assediano i due eroi rintanati nel saloon nella prima parte, ma gli esempi sarebbero innumerevoli).
L’America è un dente cariato dalla fame del profitto e dal fascino perverso della violenza, che se ne va in giro ad uccidere per denaro, spesso col sostegno della legge (come ben sbandierato dal Dr. Schultz ogni volta che le circostanze gli impongono una giustificazione pubblica per il suo agire spiccio e sanguinario), spartendo il mondo in buoni e cattivi, per abbattere la prevaricazione dell’integralismo religioso dei Big John Brittle e radere al suolo senza pietà la fanatica follia dei Calvin Candie.
I proiettili di Django scarnificano l’ignoranza bifolca e razzista di una cultura della violenza radicata nell’anima e nelle armi di una nazione che confonde la ricchezza con il primato culturale, l’ipocrisia dell’interesse personale con la superiorità etica e morale.
Django Freeman è una comprensibile esplosione di rabbia verso un mondo di arroganza e cinismo, un eroe solitario che riparte dai fondamentali, amicizia, lealtà, riconoscenza e amore, per lasciarsi alle spalle un passato di disumanità istituzionalizzata e ricominciare altrove.
Quentin Tarantino scrive e dirige una pellicola guascona e spavalda, un festival splatter dal cast stellare (tra i tanti ruoli secondari, menzione speciale per lo schiavo di casa Candie, lo Stephen di Samuel L. Jackson, una geniale gemma di subdola, meschina cattiveria), che polverizza l’ultima frontiera del Western e della coscienza con intelligenza e ironia, cavalcando verso un’idea di cinema tellurico e coraggioso, abile a scandagliare la poetica triste e drammaticamente trasversale, nei popoli e nelle epoche storiche, dell’homo homini lupus.
La D sarà anche muta, nel Django Unchained tarantiniano, ma la Q, anche questa volta, la si sente forte e chiaro.