Le opere di Edward Hopper a confronto con i film di Alfred Hitchcock: inquadrature della solitudine.

Sir Alfred Joseph Hitchcock lo conoscono un po’ tutti, la sua filmografia è composta da ben 53 film che gli hanno valso il sopranome di “maestro del brivido” e un posto perenne nell’Olimpo dei registi cinematografici. Edward Hopper, invece, è un pittore statunitense, nato nel 1891 e divenuto famoso per i suoi dipinti che raccontano la solitudine della vita americana attraverso un impassibile realismo. Due personaggi che apparentemente non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma che sono in realtà legati da un sottile filo comune: quello dello sguardo.

Non uno sguardo normale, però, uno molto particolare. Uno sguardo che sa cogliere la vita all’interno degli edifici, l’occhio del voyeur che sa cogliere quei momenti privati, misteriosi, ambigui e talvolta stranianti, ma sempre con un certo distacco, senza divenire mai invadenti. Nel 1925, Edward Hopper dipinge un’opera intitolata Casa vicino alla ferrovia: una casa bianca con il tetto scuro, in perfetto stile “prairie” alla Frank Lloyd Wright,statica e spettrale in mezzo ad una natura arida e immobile.

Un luogo che sembra disabitato e fermo in una non ben precisata dimensione temporale passata, un edificio che ricorda senza dubbio l’inquietante motel di Norman Bates, il protagonista di Psycho, celeberrimo film di Hitchcock del 1960. Una somiglianza evidente e tanto precisa che spinge a credere in un effettivo legame e scambio di idee fra i due autori.

In effetti, Hopper era un grande amante del cinema e dalle sue biografie emerge spesso quanto il taglio visivo del grande schermo fosse fondamentale per la sua produzione artistica. Dal canto suo, Hitchcock ha sempre avuto una certa passione per il mondo delle arti visive, tanto che si iscrive alla facoltà di Belle Arti, mentre abita ancora in Inghilterra, per studiare disegno. Inoltre, hanno entrambi una grande ed evidente passione per il dato reale, per il contemporaneo, per ciò che rappresenta quel che si vede. Amano le atmosfere studiate attraverso giochi di luci e inquadrature, attimi colti nel momento pregnante, un po’ come si faceva nei lontani e imponenti dipinti neoclassici.

Hitchcock dà sempre un ruolo di una certa importanza all’elemento artistico nei suoi film: basti ricordare che La donna che visse due volte, del 1958, si snoda attorno ad un dipinto di una dama conservato nel museo di San Francisco. E quella sequenza in cui Kim Novak guarda fuori dalla finestra del suo hotel ricordano così tanto un dipinto di Hopper del 1950, “Mattina a Cape Cod”, dove una giovane donna, ai affaccia, ieratica, al suo bow window della sua casa bianca e americana, intenta ad osservare qualcosa di indefinito e misterioso disperso in un punto imprecisato del suo orizzonte, in mezzo ad una distesa di campi ingialliti di erba alta.

Come non ricordare, poi, La finestra sul cortile, un film del 1954 dove il protagonista, costretto a riposo forzato da una gamba rotta, si mette ad osservare – come un vero e proprio voyeur, ma spinto dalla noia e non dalla perversione – dentro la vita altrui tramite la sua finestra. Una curiosità che è insita anche nel pittore americano, che ricerca una sorta di “erotismo a distanza” nel lanciare quegli sguardi furtivi all’interno delle finestre illuminate di New York, attraversando la città a bordo della sopraelevata.

Così, Hopper presenta al mondo Finestre di Notte, eseguito nel 1928, dove una giovane donna viene ritratta di spalle, nell’atto di chinarsi. Pochi indumenti addosso, leggera biancheria rosa, in un contesto estremamente privato, intriso di una sensualità così naturale che non potrà mai risultare volgare. Una scena che rivediamo anche nella Finestra sul cortile di Hitchcock, quando il protagonista si sofferma ad osservare la vicina dell’edificio parallelo che si sta cambiando nella sua stanza.

Un gioco di sequenze e sguardi che mirano a cogliere degli angolini di vita privata ben precisi: quelli che testimoniano i momenti di solitudine. Gli attimi sospesi nei pensieri, in attesa di un cambiamento, persi nei meandri della nostra mente. E i luoghi desolati, che possono essere reali o psicologici, dove si finisce inevitabilmente nella malinconia e, nei casi più gravi, al dramma.

Il realismo del mito americano senza seconde possibilità, come lo descrive anche Scott Fitzgerald nei suoi romanzi (Il crollo, 1936), che distingue senza ombra di dubbio la produzione di Edward Hopper. Un secondo atto che non c’è, perché il dramma è anche tragedia. E tragedia è anche thriller, quindi è anche Hitchcock.