El Conde, la recensione di Silvia Gorgi del film di Pablo Larraín in concorso all’80a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Il regista cileno Pablo Larrain per raccontare la figura del dittatore Augusto Pinochet sceglie un punto di vista particolare, laterale, immaginifico, e lo traspone, nella mente e nello spazio, rendendolo quello che metaforicamente ritiene sia stato, ossia un vampiro, in grado di succhiare il sangue della gente, di farne ciò che voleva impunemente, attraversando epoche storiche e situazioni familiari.
Così per raccontarci le vicissitudini del presidente della giunta militare cilena nel 1973, e dal 1974 presidente della repubblica cilena, (fino al “no” del plebiscito popolare del 1988 che lo portò alla destituzione), ci si ritrova in una sperduta campagna, dove Pinoche/Pinochet si sta nascondendo, dopo una morte apparente, insieme alla moglie Lucia, e desidera finalmente di morire, dopo aver accumulato morti su morti, mangiato cuori per tenersi in vita, con l’aiuto del suo maggiordomo factotum russo Fyodor.
Un bianco e nero gotico
Ma vengono a bussare alla sua porta i figli, che bramano le ricchezze accumulate nel corso degli anni, e che tiene nascoste in documenti finanziari? Per portarli allo scoperto, una delle figlie, fa arrivare nella tenuta una giovane, che dovrebbe aiutarli proprio in queste pratiche, ma che è una suora, mandata dalla Chiesa, per esorcizzare il vampiro.
In un bianco e nero, molto gotico e d’atmosfera, firmato da Ed Lachman, un grande direttore di fotografia, si snodano le vicende di questo redivivo, che di anni ne ha vissuti 250 (91 quelli del generale, morto nell’ospedale militare di Santiago nel 2006), nato in Francia il 25 febbraio del 1766, quando si chiamava Pinoche, passando come controrivoluzionario da una rivoluzione a un’altra fino al suo arrivo in Cile, dove diventa El Conde, Il Conte.
A raccontarci le sue vicende umane e disumane è una suadente voce femminile inglese, che alla fine svelerà il suo volto e la sua funzione, in questa favola nera, che unisce generi, in cui Larrain spazia e gioca utilizzando a tratti, per le vicende dei figli, in cui racconta le nefandezze del regime (che con un colpo di stato sanguinoso, accumulò crimini orrendi contro l’umanità), uno stile a De La Iglesia ne La Comunidad, il cui patrimonio più importante, accumulato negli anni sono… i libri, e che libri.
Per scoprirlo sarà necessario vedere questa pellicola, che mischia grottesco e humor nero, che sperimenta e osa, e che molti che amano lo stile di Larrain (Neruda, Jackie, Lady D) alla Mostra non hanno apprezzato; gli ibridi finiscono sempre per non mettere d’accordo.
Un film metaforico e bizzarro
Metaforico in maniera bizzarra, visivamente affascinante, un interessante esperimento che personalmente non mi è spiaciuto ma che, per molti, non ha convinto.
Belle le evoluzioni vampiriche de El Conde e della suorina vampirizzata nei cieli notturni e diurni, in questo film eccentrico e politico, che nello scambio di battute fra i figli e la suora ci racconta questa figura “mostruosa” della storia che, nella realtà, nonostante i misfatti commessi e le ruberie, grazie all’immunità parlamentare non venne mai processato, e venne messo quattro volte agli arresti domiciliari, vivendo una vita lunga, e ricca, grazie all’evasione e al riciclaggio.
Autore della sceneggiatura, insieme al regista, Giullermo Calderòn, una satira della vita di Pinochet, reso vampiro immortale grazie all’impunità, in concorso qui a Venezia 80.