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Le finestre del grattacielo di fronte sembravano emorroidi oculari, tanti occhi torvi e lucidi che riflettevano il nulla assoluto. Inutili riquadri scuri e minacciosi messi a vedetta della mia vita bidimensionale.

D’un tratto, con uno scatto improvviso, una delle finestre si aprì, e la superficie specchiata iniziò a catturare grandi nuvole bianche che si rincorrevano nel cielo. L’occhio si fissò su quello spettacolo, lasciando che la testa si perdesse in peregrinazioni di congetture fantasiose. I pensieri si succedevano con una straordinaria rapidità, la stessa con la quale il sangue affluiva al cuore. Le voci ovattate in sala riunioni si fecero più lontane, i miei sensi si distolsero da quanto vi avveniva, cessai di ascoltare, costrinsi il mio corpo a rimanere solerte, intanto che la mente vagava libera fuori da quella finestra. Con un’ellisse perfetta si sarebbe potuto raggiungere facilmente il grattacielo dirimpetto e penetrare dentro quel vetro aperto, partecipare a un’altra vita, entrare in un altro mondo, essere magari – per qualche tempo – qualcun altro.

Chi o che cosa c’era dinanzi a me?

Non me lo ero davvero mai chiesto. Forse un altro ufficio come questo, forse un’azienda, forse la sede di un’ambasciata, o degli appartamenti privati. O forse solo un’altra sala riunioni con un altro dirigente stanco e irritato che cercava invano di dare la colpa a chiunque, meno che a se stesso, della poca efficienza della sua nuova linea strategica. Mi venne quasi da sorridere al pensiero… e se mi fossi affannato tanto per niente? Se veleggiando fossi entrato da quella finestra solo per constatare che aldilà del vetro non c’era altro che il nulla? Nient’altro che uno specchio che ripeteva all’infinito la mia squallida vita?

Fu con un certo sollievo che mi riscossi allora, quando la finestra specchiata si richiuse. Il corso dei pensieri si fermò, le nuvole cessarono di scorrere nel cielo, e io tornai a vedere solo il vetro nero del grattacielo, che rifletteva il palazzo di fronte, in un gioco di specchi senza fine e senza alcun principio.

Era proprio questo che pensavo quel giorno, quando ricevetti la visita inaspettata di Howard O’Brien. Nonostante lo sguardo disincantato e l’aria sorniona da folletto irlandese, vidi subito che quel bonaccione era visibilmente turbato. Come sempre, quando parlava con me, tendeva a italianizzare ogni parola. A modo suo, s’intende. Ce l’aveva, ancora una volta, con i pezzi di merda building. Era il suo modo pittoresco di riferirsi ai grattacieli che oramai nella sua patria, New York, ogni anno soppiantavano tutto e si espandevano con la vigoria nefasta di una pianta carnivora e velenosa. Ormai non si contavano più i ristorantini tipici che avevano chiuso per lasciare il posto a gigantesche multinazionali, banche e aziende private. Io e lui eravamo molto simili in fondo, odiavamo il business selvaggio, la tecnologia, il gossip, e anche lo sport. Ma lui era quasi peggio di me. Non usava il telefonino, aveva regalato la sua auto a un istituto tecnico, nel suo monolocale gli elettrodomestici erano staccati dalla rete elettrica perché dentro ci teneva dei libri. Sosteneva che si potesse vivere bene anche senza innovazioni.

Era venuto a Milano per un convegno sul gaelico, materia che lo appassionava enormemente per via delle sue lontane origini irlandesi e, da attento cultore della lingua, in quel momento mi stava decantando in italiano uno dei nostri proverbi popolari che suonava più o meno così: a nemico che fugge, ponti d’oro.

Non riuscivo proprio a capire dove voleva andare a parare, almeno fino a quando non mi sventolò sotto il naso il ritratto di Giuditta Sommaruga.

Cominciai lentamente a fare due più due. Il convegno, mi stava raccontando, si era svolto proprio di fronte alla gigantesca sede della Regione, in Via Melchiorre Gioia, qui a Milano. La storia di quel posto, devo ammetterlo, era interessante. Giuditta Sommaruga, unica erede di un patrimonio valutato all’epoca in qualcosa come un miliardo e settecento milioni delle vecchie lire, aveva dispensato tutti i suoi beni con un lascito all’Ospedale Maggiore nel 1964. Poi il progresso e lo sconfinato bisogno di espansione di questa città avevano prodotto le solite aberranti mutazioni. Il vincolo della donazione era stato aggirato, il vivaio Sommaruga era stato espropriato, e il Tar aveva sancito la validità dell’accordo tra Regione, Provincia e Comune per costruire un gigantesco complesso sul terreno ereditato dalla contessa Sommaruga, che ora apparteneva all’ospedale Niguarda. In una sorta di aliena opposizione, poi, perfino le piante del vivaio Fumagalli, nel corso dell’esproprio, si erano trasformate in una sorta di giungla vivente, dando luogo a quello che era passato alla storia come il Bosco di Gioia. Ricordavo che all’epoca cittadini, personaggi autorevoli e celebrità si erano mobilitati per salvare quelle piante millenarie dalla distruzione, ma i 26.000 metri quadri della proprietà erano stati trasformati in un sistema complesso di edifici curvilinei di vetro e acciaio, sormontati da una mostruosa torre a 39 piani alta 161 metri. Scuole materne, belvedere, auditorium, ristoranti e caffetterie non erano certo bastati a ingentilire quel deformante progetto che era un insulto alla città e a ogni bene dell’intelletto che fosse a stento sopravvissuto nelle nostre menti obnubilate.

Il giorno prima c’era stata la benedizione della Madonnina, con l’intervento del cardinale Tettamanzi. Una delle vecchie tradizioni meneghine scampate al progresso fagocitante vuole che ci sia una Madonnina su ognuno dei punti più alti della città, attualmente appunto la Torre Breda, il Grattacielo Pirelli e Palazzo Lombardia.

Il giornale riportava che nei bagni, quello stesso giorno, era stato ritrovato il cadavere di un’inserviente, una donna anziana. Sembrava fosse stata aggredita da un clochard che si era arroccato nel palazzo per dormire e ripararsi dal tempo inclemente. Nessuno ci aveva trovato nulla di strano, tanto che praticamente il caso era stato chiuso ancora prima di essere aperto. Ma Howard insisteva a recitare quel proverbio e a parlare di una figura retorica dell’oratoria greca, un’altra delle sue tante inattuali passioni, che riguardava l’omissione, all’interno di una frase, di uno o più termini che sia possibile sottendere.

Lui la chiamava ellisse anche se a me, sinceramente, la parola ellisse continuava a evocare una figura geometrica vagamente somigliante a un cerchio allungato verso una determinata direzione, magari proprio quella di un grattacielo dalle finestre opache simili a tanti occhi maligni, lucidi e rettangolari, che riflettevano il nulla assoluto. Inutili riquadri scuri e minacciosi messi a vedetta della vita monotona di una povera inserviente che, da ragazza, si era chiamata Evelina Sommaruga.

Perché una delle eredi della contessa Sommaruga era stata uccisa all’interno di Palazzo Lombardia proprio nel giorno dell’inaugurazione? Per uno come me che non crede alle coincidenze c’era decisamente di che indagare, e questo, forse, avrebbe anche potuto solleticare l’interesse del mio dirigente, proprio lo stesso che, nel corso di quella riunione fiume stava cercando – con la disperazione di un regnante prossimo alla deposizione – un possibile filone d’oro da poter sfruttare. Una causa per opposizione contro le tre sorelle?

Chi avrebbe potuto mettersi contro quella Gorgone dalle tre teste? Chi poteva avere l’ardire di sfidare le potenze del Comune, della Regione e della Provincia messe assieme, se non quel bravo Yankee che avevo davanti e che nella sua infinita umanità, durante un convegno sul gaelico, aveva raccolto le confidenze di una vecchietta che puliva i bagni e che un tempo era stata erede di una fortuna sconfinata?

Solo allora misi a fuoco quello che Howard mi stava suggerendo. Nell’angolo in alto a destra, dietro al ritratto tascabile della contessa Sommaruga, qualcuno aveva nascosto l’originale del testamento olografo della defunta di cui si erano ormai perse tutte le tracce, assieme a un altro, insignificante, piccolo documento. Evelina Sommaruga, prima di essere uccisa, aveva firmato a Howard una delega.

Ora potevamo agire e riuscire dove tutti avevano fallito. E solo adesso, finalmente, comprendevo la formidabile perfezione di quel disegno, sottilmente ellittico, che dalle finestre di un grattacielo mi aveva portato all’omissione di un dettaglio all’interno di una frase. Niente da dire. Da quel giorno il termine ellisse, ai miei occhi, assumeva tutto un altro significato.