Ernest Miller Hemingway, 21 Luglio 1899 – 2 Luglio 1961
Ernest Hemingway: “La vita stronca indiscriminatamente i grandemente buoni e i grandemente giusti; se non siete fra questi non abbiate timore, vi stroncherà ugualmente, solo non avrà particolare premura nel farlo”.
Mi piacerebbe riuscire a ricostruire qui alcuni dei principali aspetti che hanno reso Ernest Hemingway una della “divinità” della narrativa del Novecento. Mi rendo conto, sintetizzare appropriatamente una figura di così grande rilievo non è impresa facile. La vita di Hemingway fu formidabile, molto appassionante, la potete trovare raccontata in maniera inarrivabile nei suoi libri.
La prima guerra Mondiale, il giornalismo fatto di lunghe notti in ospedale o al commissariato per seguire vicende di cronaca nera che sarebbero uscite l’indomani sul giornale.
I ruggenti anni venti a Parigi vissuti da giovane squattrinato, poi il successo, la Spagna con la sua Rivoluzione, e (molto dopo) le corride. I safari alla scoperta del continente Africano, la vita alle Key West dove al tempo della seconda Guerra Mondiale con un gruppo di amici pattugliava le coste sulla sua barca, armato di mitragliatrici e lancia razzi, alla ricerca di sottomarini nazisti (!).
E poi la vita a Cuba nella celebre Finca vigia Villa, i mojito a La Bodeguita e i daiquiri a El floridita, e molto, molto altro. Per chi desiderasse approfondire la vita di questo Autore in maniera dettagliata consiglio, oltre agli scritti della straordinaria Fernanda Pivano, il libro della Professoressa Linda Wagner-Martin: “Ernest Hemingway, una vita da romanzo”.
Perché Ernest Hemingway è stato così importante per la narrativa occidentale? In prima battuta mi viene da rispondere: semplicità e ritmo narrativo. Nella narrazione hemingweyana le sequenze descrittive sono tendenzialmente brevi, attraversate spesso da giudizi poetico-morali, più che meramente descrittivi.
Esempio: “una spiaggia dice molte bugie, ma in qualche punto ha sempre scritto la verità” (Isole nella corrente). Oppure la celebre descrizione di Madrid in “Morte nel pomeriggio”: “Madrid è un luogo strano. Non credo che piaccia la prima volta che ci si va. Non ha nulla di quello che ci si può aspettare dalla Spagna. È moderna più che pittoresca senza costumi, praticamente senza cappelli di Cordoba, eccetto sulle teste degli imbroglioni, senza castagnette e senza mistificazioni disgustose come le caverne degli zingari a Granada. Non c’è in città nessun sito di color locale per i turisti. E pure, a conoscerla, è la città più spagnuola di tutte, la migliore, in cui vivere, la gente più simpatica, il clima più bello in qualunque mese dell’anno e, mentre le altre grandi città simboleggiano tutte la provincia in cui si trovano, sono in sostanza andaluse, catalane, basche, aragonesi, e comunque provinciali, soltanto Madrid può darvi l’essenza”.
L’introspezione è ridotta al minimo indispensabile per il funzionamento della storia, la preminenza della sequenza dialogo-azione-dialogo-azione è innegabile. Il tutto avviene attraverso l’impiego magistrale di termini di uso comune.
Con una narrazione così composta ad Ernest Hemingway riesce una delle cose più difficili: raccontare in maniera semplice anche il più complesso dei personaggi, la più complessa delle situazioni, sensazioni, stati d’animo. E se il ritmo che imprime alle sue narrazioni secondo alcuni è il frutto degli studi di musica che Ernest compì fin da giovanissimo, la capacità di narrare in maniera semplice e diretta gli viene sicuramente dalla sua esperienza nel giornalismo.
Celebre il fatto che Hemingway tenne sempre a mente il promemoria che il direttore del Toronto Star gli diede: un libello che conteneva una serie di consigli per scrivere un buon articolo. Tra questi consigli figurava la norma che ingiungeva un parco utilizzo degli aggettivi, quella di comporre paragrafi brevi, e di porsi in maniera positiva al lettore. Ecco spiegata la natura dello stile inconfondibile di questo Autore, uno stile che trae origine dal giornalismo.
Uno stile diretto, semplice ed efficace come pochi se n’erano visti prima, uno stile tutto teso alla narrazione degli eventi, dell’azione. Come non restarne colpiti? Considerate che diviene famoso nel 1926 con “The Sun Also Rise”, (che in Europa arriverà l’anno seguente con il titolo di “Fiesta”) bene, voi avete presente qual era il coefficiente medio di intrattenimento di un libro degli anni venti? Negli USA John Fante avrebbe fatto il suo esordio soltanto dieci anni dopo, Chandler sette e, in Italia, tanto per fare un raffronto, c’era D’annunzio che dominava… massimo rispetto per il letterato D’Annunzio, per carità, ma, vuoi mettere?
L’Opera di Hemingway contribuisce sensibilmente a gettare le basi per la creazione della narrativa U.S.A. per come la conosciamo e la apprezziamo noi oggi. Quella narrativa imperniata sull’azione (epica), su di un ritmo incalzante, dove i personaggi vengono caratterizzati attraverso brani dialogici, e attraverso il loro agire.
Hemingway, meglio di molti altri, coglie l’importanza della narrazione, del narrare storie, buone storie. Vi credeva profondamente, nelle buone storie. Fino a farne una ragione di vita. Non è certo una coincidenza che Ernest abbia in più di un’occasione manifestato ammirazione per il grande Mark Twain. Pensiamo a come ne scrive in “Verdi Colline d’Africa”.
Quindi per quanto riguarda le innovazioni tecniche. Semplicità di narrazione fondata sul ritmo e sull’azione, il tutto incardinato in una geniale capacità di caratterizzazione dei personaggi, e di una creazione di sequenze dialogiche che ha fatto la storia della narrativa moderna.
Poi, se volessimo lanciarci in una astratta sintetizzazione della poetica emingweyana (e non è detto che lo vogliamo) potremmo dire che questa è una poetica di relazione tra un determinato archetipo di “Io” alle prese con il “dover essere”, e “l’altro da sé”. L’altro da sé, l’elemento con cui relazionarsi, di volta in volta è la famiglia, l’amata, la sorte, la morte, la guerra, la tauromachia, la Natura. Mi spiego.
Nei suoi scritti Ernest porta sulla scena il modello del “duro” per eccellenza, qualcosa a metà tra John Wayne ed Humphrey Bogart per capirci. E questo schema può essere incarnato dal protagonista, e allora questo vivrà le sue avventure con tutte le conseguenze del caso, pensiamo a “Per chi suona la campana”. Ma spesso sulla scena appare qualcuno che è agli antipodi di quel modello, ed allora la sua esistenza sarà parecchio mesta :pensiamo al racconto “La breve vita felice di Francis Macomber” in cui uno dei protagonisti, che capiamo essere un pavido, viene ammazzato dalla moglie durante una battuta di caccia in Africa.
Insomma: “Non era che un vigliacco e quella era la maggior sfortuna che un uomo potesse avere” (Per chi suona la campana).
Quindi il modello del “duro” dell’individuo coraggioso , che fa quello che deve, ad ogni costo. Che fa le cose come devono essere fatte è una presenza se non costante almeno assidua. Celebre la definizione di stile che Ernest diede in una intervista al Time a metà degli anni cinquanta: “La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano. È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale”.
Il modello del duro, che incarna la dimensione tipicamente hemingweiana di epica sul cui piano tutte (o quasi) le questioni possono essere ricondotte è qualcosa che troviamo nella maggior parte dei libri di Ernest. Secondo alcuni qui c’è il “dover essere”, cioè come Hemingway voleva essere, voleva vivere, con la forza e la tenacia dei suoi personaggi. Questo spiegherebbe la meticolosa creazione del personaggio Ernest Hemingway. Cioè l’impegno che lo scrittore profuse per dare di sé una certa immagine agli altri, che gli valse la qualifica, da parte di Montanelli, di “ultimo dei D’annunziani”.
Ernest cercò sempre di apparire come l’uomo forte, coraggioso, eroico, o almeno dalla parte giusta. Perché giusto e sbagliato, sono concetti granitici nell’immaginario di questo Autore. Il secondo in cui gli spuntarono i primi capelli bianchi cominciò a farsi chiamare “Papa” (papà, da intendersi come figura sociale di riferimento) da persone che avevano la sua età. Fin da giovane amava le tavolate patriarcali. Sfidare a boxe chi lo offendeva. Cacciare e pescare. Amava essere il “duro” di riferimento. Amava l’attenzione delle donne (a testimoniarlo c’è l’alto numero di matrimoni che contrasse) e dare alle sue forti bevute una luce gloriosa.
Cercava di vivere come scriveva e viceversa. Perché lo faceva? Potremmo dire che lo faceva perché voleva essere l’eroe che contestava al padre di non essere stato (il padre morì suicida, pare, succube della moglie e questo fu un trauma insuperato per Ernest), ma sembra riduttivo metterla in questi termini e comunque, il perché non ci interessa poi tanto, in questa sede.
Natura, guerra, amore, passione, morte: questi sono tutti temi che possiamo trovare declinati secondo uno stile e un punto di vista inconfondibile nei vari romanzi di Hemingway. Gli elemento con cui il protagonista hemingweyano si rapporta. Ernest, grande amante della natura e della vita all’aperto (a cui fu iniziato dal padre) ha scritto pagine bellissime sul continente africano. Continente in cui rimediò uno svariato numero di trofei di caccia, e una buona dose di problemi medici, un po’ per le malattia locali, un po’ per i due incidenti aerei di cui fu vittima, che possono essere lette in “Verdi colline d’Africa” e Vero all’alba”.
Il tema della guerra, oltre che nei vari racconti lo si può ritrovare in “Per chi suona la campana” e nel celeberrimo “Addio alle Armi”.
“Morte nel pomeriggio” invece vi guiderà attraverso il mondo delle corride, una delle passioni di Hemingway. Con “Fiesta” e “Fiesta Mobile” ritornerete al clima spensierato della belle époque parigina. In “Avere e non avere” e “Il vecchio e il mare” (quest’ultimo gli valse il Premio Nobel per la Letteratura) troverete tuta la “poetica del mare, della gente del mare” come la definì lo stesso Autore.
E poi le pubblicazioni postume come “Isole nella corrente”. E poi ci sono i racconti. C’è un’edizione Oscar Mondadori, del costo di 14 euro, “Tutti i racconti di Ernest Hemingway” che contiene 967 pagine di racconti . Ve la consiglio, tantissimo.
I Racconti di Hemingway sono un’opera d’arte e un corso di scrittura allo stesso tempo. Insomma, è impossibile per me consigliarvi di leggere uno, o solo alcuni testi di questo Autore. Quindi vi invito a leggerli tutti. Magari partendo dal primo, da “Fiesta” che è “non una satira, ma una tragedia che ha come eroe la terra.”
Il declino psicofisico di Ernest Hemingway risulta lampante e inarrestabile nel 1960, quando, in occasione dell’uscita su Life del suo ultimo lavoro sulle corride “Un estate pericolosa”, Ernest si rende conto di non essere più in grado, dopo una quindicina di libri e una vita come giornalista e scrittore, di scrivere come desidera.
Il lungo alcolismo (circa tre quarti di litro di whiskey al giorno) e una probabile propensione genetica alla depressione, oltre ad un’emocromatosi, lo conducono per una via senza ritorno. Una via fatta di crisi maniaco depressive. Tra le varie ossessionato da cui era affetto quella che più lo tormentava era il fatto che l’FBI lo perseguitasse. Lo seguisse e lo spiasse continuamente. L’FBI aveva invece solo un fascicolo che lo riguardava, a causa delle sue idee della sua fama e delle sue amicizie, e lo aveva spiato in passato, adesso meno, molto meno.
Le crisi culminano in tentativi di suicido sventati per un soffio, e conseguenti ricoveri in clinica, cui seguono decine di elettroshock. Elettroshock che gli causano afasia e perdita di memoria e quindi altra depressione, crisi e disperazione.
È l’alba del due di Luglio 1961, si preannuncia una giornata di sole a Ketchum, Idaho. Ernest Hemingway si alza dal letto, ancora in pigiama prende, dal davanzale della cucina, le chiavi dell’armadio dove sono rinchiusi i fucili, sceglie un calibro dodici. Inserisce due cartucce. Si accosta il vivo di volata al palato. Preme entrambi i grilletti contemporaneamente.
Leggete questo grande Autore: vi attendono dei personaggi e delle atmosfere che hanno fatto la Storia della Narrativa.