Colloquio con Fabiana Gabellini, stilista e scrittrice, autrice di Pubblicità: moda e guerra. Le parole in comune (Linea edizioni, 2019).
Fabiana Gabellini è stilista e designer di grande esperienza. Autrice di un notevole saggio storico e sociologico sulla moda e sui concetti in essa innervati (Pubblicità: moda e guerra. Le parole in comune, prefazione di Francesco Sidoti, Linea edizioni, 2019). Ci si potrebbe dilungare in analisi e recensioni del testo, ma cogliamo oggi l’occasione preziosa di scoprire tale universo tematico attraverso le parole stesse dell’artista.
Fabiana Gabellini è professionista dalle idee molto chiare, schietta nell’illustrare la sua filosofia.
L’intervista
La sua è una tendenza culturale.
Quello che noto è che il mio marchio si sta diffondendo nei circoli culturali. Questa è la novità, per chi opera nel settore della moda. Anche nel libro cerco di spiegarlo: negli abiti c’è qualcosa di più. La cultura di base, questo quid pluris è la fusione tra arte e moda. Tanto che spesso vengo avvicinata da coloro che sono artisti oppure operatori culturali. Il legame che c’è tra la moda e l’arte (e i pittori) è fortissimo. Ho lavorato con pittori contemporanei, ad esempio Leonardo Nobili, il quale lavora con il cd. effetto materico: effettua calchi alle modelle per riprodurre poi il relativo vestito. Il nostro ultimo lavoro è stato l’opera “La primavera amara” (29 luglio 2021) ispirata appunto alla “Primavera” del Botticelli, presente al Mart e fortemente voluto dal suo Presidente Vittorio Sgarbi.
Il suo documento è recente, uscito alla fine del 2019. Oggi, estate 2021, qual è la tendenza edonistica, di stile, delle persone che incontra?
Ho visto molte persone infelici, che hanno reagito male alla crisi e all’isolamento sociale e personale. Le ricadute sulla propria cura e sulla propria presentabilità sono state terribili: come se si fosse perso il gusto del vivere, di presentarsi esteticamente e moralmente al proprio prossimo. Anche e soprattutto quest’anno, ma ho perseverato. La particolarità del mio lavoro è che è sartoriale ma moderno, ovverosia non classico.
I prodotti devono essere commercializzabili, ma avere anche avere una loro valenza concettuale. Mai rinunciare all’idea di progetto. Ma quest’ultimo non deve diventare accademico: si deve capire. Del resto l’artista è un essere umano senza età, che può parlare a vaste fasce di pubblico. Sono contraria al concetto di moda. Al massimo posso accostarmi al concetto di tendenza, ma voglio che i capi vivano per sempre, che mantengano uno stile che può essere definito attuale anche riscoprendolo tra vari decenni.
Le confesso che quando scrivo, specie quando scrivo narrativa (ma non escludo la non-fiction), amo immaginare setting, personaggi e dialoghi ai limiti dell’esagerazione, molto calcati e appunto pulp (nel senso di pulp magazine, che nulla hanno a che vedere con il crimine e il thriller). È una visione della realtà, che restituisce gioia, eccitazione, gusto per la vita (non a caso ci ospita la rivista giusta!). Mi permetto di dirle questo poiché mi sembra di ritrovare nel suo lavoro, che è ovviamente diverso, la stessa ispirazione. Finalmente scrittura e moda hanno trovato un terreno comunicativo comune?
Precisamente. Quando lavoro in realtà sto pensando. Sto immaginando situazioni, trame, personaggi che dialogano. Un universo glam, magari su uno yacht, un favoloso cocktail party. Disegno i vestiti pensando a un pomeriggio soleggiato e frizzante presso Capri o Positano. L’immaginazione, la speculazione e la fantasia, di cui lei parla molto spesso, sono fondamentali. Io sono una fervida studiosa della storia di Versailles, del Rococò, dell’etichetta, dell’eleganza e del modo di fare come codici, della lingua francese e dei suoi meta-significati.
Re Luigi XIV dedicava molto del suo tempo alla moda e all’architettura. Ideava giardini, fontane, e li commissionava agli architetti. Voleva ricreare una Parigi ideale e grandiosa presso la dimora reale. Queste grandi personalità sono sempre divise in due: da una parte il regnante e dall’altra il pensatore, il politico e il filosofo. Da Luigi XIV al granitico intimismo di Marco Aurelio, i cui pensieri leggo sempre con passione, come fossero disgiunti dalle campagne militari e dalle questioni imperiali.
La immagino effettivamente a curare universi e vestiari senza tempo, in un moderno set cinematografico francese. Magari in un film con Fabrice Luchini, quando a sua volta interpreta attori alle prese con le commedie di Molière.
(Sorride) Mi piacerebbe questo salto temporale! Amo la comicità francese naïve cui fa riferimento. Come abbigliamento, come regalità ereditata dal passato. Sono anche un’appassionata di Lupin… A proposito di film e di pubblicità, nel testo parlo del loro potere. E anche dei pericoli derivati dall’abuso di questo potere. Lei cosa ne pensa?
Mi interessa molto tale tematica. Sono particolarmente impegnato circa i limiti pedagogici che l’industria filmica e letteraria dovrebbe imporsi, specie nell’ultimo decennio in cui sembra aver perso il senso della traiettoria.
Ogni bambino può accendere la tv o visionare un servizio streaming, di conseguenza bisogna sempre interrogarsi sull’impatto di parole e immagini. Si va dalla guerra, alla pubblicità aggressiva, dal sentimentalismo innocente a vene più macabre (nel libro parlo dei colori e in particolare del rosso – come violenza e come passione, presenti in Kubrick e in Argento – e del sangue, che tratta anche lei in uno dei suoi lavori). Il macabro è in noi, questa vena morbosa, e può essere controllata, ma gli inermi sono senza difese.
Questo è particolarmente evidente in alcuni lavori di Oliviero Toscani, il quale critica proprio il fatto di godere delle disgrazie altrui. E infatti è vero che l’arte e la tecnica devono occuparsi di tematiche sociali scottanti, dall’anoressia alla disparità sociale. Se non si evidenziano, vuol dire che non verranno mai alla luce, e dunque non potranno mai essere sconfitte. Da parte mia intendo avvicinare il pubblico alla moda e all’arte. Non mi piace l’usa e getta. Bisogna sapersi vestire per l’occasione, e non ha nulla a che vedere con il vestiario. È il mio amore per il pensiero astratto.
Lei sta parlando di processi e in particolare del pensiero dietro al processo. Tematica calda nella cultura aziendale, professionale, economica.
Certamente. La moda, in fondo, è imprenditoria. Amo le astrazioni, perché poi possono essere applicate a uno spiacevole contesto reale, al fine di migliorarlo. E la moda non è esente dai processi: privarli di concettualizzazioni è ingiusto, fornirebbe carente qualità al prodotto finale. Nella mia vita ho attraversato varie “fasi”, con forti passioni teoriche, dall’esoterismo alla filosofia, al legame tra medicina e vita. Ho allenato la mia memoria e sviluppato capacità ulteriori, che in maniera trasversale ho trovato molto utili per lavorare e pensare. Come operatrice di moda sono giovane, ma non per questo impreparata. Ho iniziato a lavorare e a studiare prestissimo. Ho sfruttato appieno gli anni della mia preparazione, e ora ho il privilegio di sentirmi pronta.