Fast Food, un racconto inedito di Giorgio Cracco per Sugarpulp

Ciccio scosse la testa, sbuffando con evidente fastidio.
Certe cose non riusciva proprio a comprenderle.
Quando il titolare del ristorante, uno dei più vecchi e conosciuti dei Colli Euganei, si era seduto con timoroso imbarazzo alla loro tavolata, lui era stato l’unico tra i suoi amici a non ridergli in faccia e a non prenderlo platealmente per il culo.
Il viso del poveretto mostrava ancora i postumi del brutale pestaggio subito alcune sere prima all’uscita del suo locale, situato in una frazione di Teolo, in posizione leggermente defilata rispetto al principale nucleo di abitazioni.
Ciccio notò che il tizio aveva perso l’occhio destro a causa dell’eccessivo zelo dei suoi ragazzi. Questi ultimi, contemplando divertiti gli esiti del loro operato, non si curavano nemmeno di fingere che la questione non li riguardasse. Al contrario, sembravano trovarla un autentico spasso. Poco male, avevano commentato, tanto non gli servivano certo due occhi per prendere le cazzo di ordinazioni. Per quello uno bastava ed avanzava.
E subito, ad ogni stupida, irrispettosa battuta, le bocche correvano a contorcersi in grasse e sguaiate risate.
Francesco ‘Ciccio’ Iannuzzo non era detto ‘O’ Filosofo’ per caso. Era proprio per il carattere appartato, per l’aria di riflessione continua sulla vita, sulle persone e un po’ su tutto, con quello stare sempre a pensare ai massimi sistemi, spaccando continuamente il capello in quattro su questa o su quell’altra questione, era stato per tutto questo, appunto, che qualcuno del suo giro l’aveva ribattezzato con quel nomignolo del cazzo. Era successo una volta, per gioco, per cazzeggiare un po’ durante una bevuta tra amici. E poi, consolidato dal quotidiano ripetersi di un habitus mentale reso cliché dall’acuto osservare altrui, il soprannome era rimasto.
Quella sera, seduto tra loro sette, affiliati ad un clan camorristico potente ed in aggressiva espansione, c’era un uomo di cinquantacinque anni col volto tumefatto e l’animo mite e terrorizzato che si faceva sfottere ed umiliare da un branco di arroganti giovanotti che avrebbero potuto benissimo esserne gli indegni figli degeneri.
Ciccio non aveva mai capito che gusto ci fosse nel tormentare un altro essere umano. E dire che lui, sull’argomento, poteva definirsi senza falsa modestia un vero esperto. Fin da piccolo, infatti, la famiglia e la strada gli avevano insegnato ad essere forte e spietato, fedele solo agli affari ed ai legami di sangue che da generazioni erano il cuore oscuro delle fortune del Sistema e di tutti coloro che ne facevano parte o, in qualche modo, gli gravitavano attorno.
Non era mai stato contrario agli affari di famiglia, non ne aveva mai avuto motivo. Anzi, se era riuscito, col tempo, a costruirsi una reputazione temuta e rispettata da tutti, lo si doveva alla sua incrollabile dedizione alla causa ed all’efficiente abilità nel portare a termine ogni incarico gli venisse affidato.
Ma il problema, in un certo senso, era proprio quello. Li considerava, da sempre, affari, solo affari. Né più, né meno. Di qualunque genere fossero, non c’era mai, da parte sua, alcun eccessivo coinvolgimento emotivo, niente di più, cioè, di quanto non fosse strettamente necessario per la buona riuscita dei medesimi. Si trattava di lavoro, puro e semplice. Quindi, per Ciccio, non c’era assolutamente niente di divertente nel vedere un uomo massacrato di botte che si sedeva tremante al suo tavolo, scusandosi per avergli dato delle valide ragioni per ridurlo in quello stato.
Certo, il messaggio era arrivato forte e chiaro. Quell’imprudente testardo di Toni Casarin si era convinto a restituire ciò che restava del prestito, che gli era stato generosamente elargito quando nessuno dei canali ufficiali era stato più disposto a venire incontro alle sue disperate necessità finanziarie.
Negli ultimi due anni, infatti, Toni si era trovato in gravi difficoltà, messo in ginocchio dalla crisi economica e da un lento ma inesorabile calo di clientela nella sua attività, con il fatale, ulteriore carico di una serie ravvicinata di ingenti ed impreviste spese familiari.
Una volta che le banche, stanche dei continui assegni scoperti, dei ritardi nel saldare le rate dei finanziamenti e di tutti gli imprevisti causati da un cliente ormai scomodo e sempre più indesiderato, avevano iniziato a voltargli le spalle, Toni non aveva visto altra possibilità se non quella di rivolgersi a gente come Ciccio ed i suoi compari, più solleciti nel compatirne la difficile situazione.
All’inizio, era sembrata la scelta giusta. Quelle persone, senza fare tante storie, lo avevano aiutato, consapevoli di quanto fosse doveroso tendere la mano ad un onesto lavoratore che si trovava solo temporaneamente in un mare di debiti in tempesta. Un mare dal quale, volenteroso ed infaticabile com’era, sarebbe uscito molto presto.
Ovviamente, dopo la fiducia che avevano riposto in lui, Ciccio ed i suoi non potevano permettere che al momento della restituzione del prestito quell’operoso omuncolo veneto accampasse inutili scuse ritardando continuamente il pagamento di quanto dovuto. Avevano fatto quanto andava fatto per la tutela del business e, dopo che ne erano state riordinate le priorità,  Toni era tornato ad essere ragionevole e collaborativo.
Ciononostante, anche in quella circostanza, mentre incassava la cospicua somma in contanti, giudicato dagli sguardi avviliti dell’uomo e della moglie che osservava in silenzio la scena dall’altro lato della sala, Ciccio non poteva non chiedersi se non ci fosse un’altra via.
Tra i suoi pensieri, come un’insopprimibile sottotraccia, invisibile ma sempre presente, cominciava a farsi largo l’idea, l’esigenza, di un modo diverso di vivere la propria vita ed il rapporto con gli altri. Era ancora poco più di un concetto vago, indistinto, quasi una flebile eco da un mondo lontano ma Ciccio ‘O’ Filosofo’ sotto sotto la percepiva per quello che era. E cioè reale.
Il suo labirinto interiore, che pur non gli aveva mai impedito di essere sé stesso e di godere della considerazione e dell’appoggio del suo duro ed intransigente ambiente criminale, si stava sviluppando lungo percorsi nuovi, sconosciuti e contorti. Percorsi che forse avrebbe dovuto decidersi a spianare una volta per tutte, prima che fosse troppo tardi.
Camorra e filosofia non potevano andare d’accordo all’infinito. Ciccio si stava convincendo che per cominciare a trovare delle risposte doveva iniziare con lo smettere di farsi tutte quelle cazzo di domande.
Consegnò la borsa con il denaro ad uno dei ragazzi perché verificasse che non mancasse niente. A quel gesto, Toni lo guardò, biascicandogli un estremo, lamentoso commento, senza riuscire a mordersi la lingua in tempo per ingoiarselo a denti stretti.
Gli disse che così lo stavano rovinando, che sarebbe stato costretto a vendere e a cercarsi un altro lavoro per mantenere moglie e figli. Andava per i sessanta, non sarebbe stato facile…
Uno degli scagnozzi sbatté la testa dell’ingrato contro il legno del tavolo, urlandogli che poteva pure andare a servire hamburger per quello che poteva fottere a loro. Non erano interessati a farsi annoiare da quei pianti da finocchio.
Uomini veri non se ne vedevano più in giro, razza di frocio del cazzo.

Furono le sue ultime parole. Subito dopo la sua faccia esplose, deflagrata da un proiettile che, frantumato il vetro della finestra, gli attraversò la nuca per andare a conficcarsi nella sua giovane vita senza tanti complimenti.
Pochi secondi e anche il petto del vicino di tavolata, Gennaro, che gli stava di fronte, venne inchiodato alla sedia e quindi al pavimento da un nuovo repentino colpo mortale.
Si buttarono tutti a terra.
Ciccio estrasse la Desert Eagle, dono dello zio Pasquale di Napoli, grande appassionato di armi. Una pistola magnifica che l’uomo che per lui era stato come e più di un padre gli aveva voluto regalare in occasione del suo recente soggiorno campano per i trent’anni appena compiuti.
In quel momento però, quell’arma gli stava dando la medesima sicurezza che se si fosse stretto tra le mani il suo uccello.
Altri due colpi di fucile volarono radenti sopra le loro teste di cazzo.
Chi diavolo poteva essere? Gli sbirri no di certo. I rumeni? I cinesi? Chi stracazzo osava rompere loro i coglioni? I suoi bestemmiavano l’uno contro l’altro, senza riuscire a darsi una cazzo di risposta.
Maledisse l’idea di Gennaro di festeggiare il suo compleanno anche al Nord, con gli amici più stretti, nel ristorante di Toni, a sfregio, la sera in cui davano la definitiva scrollata al traballante conto in banca di quel fesso.
Se fossero venuti a fare quello che dovevano senza perdersi in cazzate forse quel casino l’avrebbero evitato. Ma adesso la stronzata era fatta ed era il caso di non affondarci del tutto nella merda in cui erano scivolati.