Ferrari, la recensione di Giacomo Brunoro del deludente film di Michael Mann in concorso all’80esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Ferrari è uno dei film che sta facendo più discutere in questa edizione della Mostra del Cinema. E non solo per la sacrosanta polemica ribadita da Pierfrancesco Favino sul modo in cui molte produzioni Hollywoodiane siano incapaci di affrontare complessità culturali diverse dalla loro (polemica peraltro svuotata e banalizzata perché ridotta a un titolo).
Un film incapace di raccontare
Togliamo subito ogni dubbio: Ferrari è un film brutto perché incapace di raccontare una storia. E dire che Michael Mann sta lavorando a questo progetto da decenni. A mancare è sopratutto lo storytelling, la capacità di raccontare un vicenda umana prima ancora che imprenditoriale unica.
Quello del Cavallino è infatti uno dei marchi più famosi del mondo e dietro di sé nasconde sì la vicenda umana e personale di Ferrari e la sua famiglia, ma anche quella degli ingegneri, dei meccanici, dei designer e dei piloti che hanno contribuito a costruire questo mito.
Raccontare Ferrari significa raccontare un’epopea irripetibile, raccontare cos’era la provincia italiana e come Enzo Ferrari sia stato in grado di conquistare il mondo partendo da Modena.
Mann non fa nulla di tutto ciò ma si limita a mostrare allo spettatore un paio di mesi della vita di Ferrari, mesi particolarmente critici per Ferrari a causa della delicata situazione economica dell’azienda e della sua complicata vita familiare, fino alla tragedia di Guidizzolo.
Senza dubbio un momento cruciale per l’uomo Ferrari e per l’azienda, ma forse sarebbe stato più corretto allora intitolare il film “La tragedia di Guidizzolo”. E invece al cinema c’è la pretesa (sempre più diffusa sto notando) di pretendere di raccontare una vita attraverso un episodio, banalizzando e appiattendo tutto.
La fiera delle banalità
Se a tutto ciò si aggiunge una messa in scena misera (salvo soltanto le riprese della Mille miglia e la resa scenica dell’incidente di Guidizzolo), una prova attoriale imbarazzante (Adam Driver e Penelope Cruz impresentabili), e un coacervo di luoghi comuni, ecco che il piatto indigesto è servito.
Viene totalmente ignorato il periodo più affascinante (a mio avviso) della vita di Ferrari, ovvero quello che va dal ’47 al ’57, i primi dieci anni di vita dell’azienda. Così come viene totalmente ignorata l’epopea della F1. Il confronto poi con Maestro, la biografia di Leonard Bernstein portata sullo schermo da Bradely Cooper e in concorso qui a Venezia, è impietoso proprio in termini di scrittura, di racconto di una parabola umana e di intensità.
Una scrittura sciatta che non emoziona quasi mai, anzi imbarazza perché è accompagnata da una teatralità di serie b, da dialoghi al limite del tragicomico e da una serie di passaggi didascalici pesanti e inutili.Senza dubbio una grande occasione sprecata. Peccato.