Gli è venuta improvvisamente fame. Guarda fuori. È scesa una fitta oscurità e, oltre quel buio, le luci del palazzone di fronte mandano fievoli sfavillii per ogni piano.
La strada verso casa manco la vede per quanto è stanco. Di divise non ne ha neanche una pulita e deve fare ancora il bucato. Se solo sua madre si azzardasse a farlo almeno una volta, e invece sempre con quelle vestaglie addosso a cazzeggiare. Gli viene da pensare che abbia ripreso a battere.
Apre la porta. L’odore di caffè lo fa sentire di nuovo a casa, anche se la muffa che non va mai via crea un’aroma strano, come quello di un bordello. Posa le chiavi su uno svuotatasche in legno.
In cucina, seduta al tavolo, trova sua madre. Ha la sigaretta accesa e quello che ha di fronte è quel cazzo di meccanico. Ha occupato un locale lì sotto, un sottoscala che ha trasformato nell’officina più abusiva della Zona. Ha jeans chiari con diverse macchie di grasso in bella mostra e una canottiera nera che stringe una pancia soda di birra, come quella che sta bevendo mentre fa un cenno a Rico. Il falco tatuato sul braccio è sbiadito e dà l’impressione di non tentare un volo da un pezzo.