Flight, o forse qualcosa che col volo non c’entra niente
Siediti su questa bella poltrona di cinema, il cestino dei pop-corn tra le mani è ancora caldo e già metti in bocca il primo, Flight si prospetta essere il classico film ignorantissimo sui disastri aerei, una roba da adrenalina che ti permette di sgranocchiare avidamente il tuo snack senza disturbare il vicino, tanto il livello sonoro di un film come questo copre persino i postumi di una fagiolata (ma non fatelo, il problema dell’odore non viene risolto, e nemmeno apprezzato).
Il trailer ti ha accattivato: un aereo che vola a rovescio dopo essere precipitato, un Denzel Washington eroico che riesce a salvare molte decine di persone con una manovra da fantascienza. Sei lì, sgranocchi, hai il cervello spento e tutto rivolto agli effetti speciali, hostess che volano dentro la cabina, il co-pilota impazzisce, i passeggeri impazziscono, il Denzel furioso ha il sangue freddo di una lontra e…
E… E poi ti fregano.
“Flight” mantiene ciò che il trailer promette solo per i primi 15 minuti di film. Un bellissimo Boeing che vola a testa in giù sopra una chiesa (un campanile si sgretola come una torta “sbrisolona”, dopo che l’ala lo colpisce in pieno, wow!), e poi del Flight, del volo, non c’è più manco una scena.
Ok, Denzel è spettacolare, e c’è pure John Goodman nel perfetto stile Walter de Il Grande Lebowsk” (forse davvero un po’ troppo caricato come personaggio, come a voler colmare un vuoto narrativo inserendoci la macchietta di turno), ma vi posso assicurare che di ulteriore Flight (hostess che volano, passeggeri impazziti, aereo in volo rovescio) nel film non ce n’è.
E quindi tu smetti di masticare pop-corn, perché mentre Denzel parla, e i dialoghi prendono il sopravvento, ti accorgi che il film ignorantissimo sul disastro aereo non è un film ignorantissimo sul disastro aereo, e i pop-corn freddano perché, appena provi a masticare, il tuo vicino ti strizza le palle e ti guarda storto. Ti hanno fregato.
Mentre silenziosamente protesti per il raggiro, e prometti vendetta pensando a un modo per farti ridare i soldi del biglietto (perché andare a vedere un film ignorantissimo sui disastri aerei e non avere un film ignorantissimo sui disastri aerei è diabolico), ti accorgi che Denzel recita la parte del capitano di Boeing alcolizzato che finisce in mezzo a un casino perché, dopo l’incidente, hanno trovato cocaina e whiskey nel sangue. E i pop-corn freddano.
Ci sono un avvocato, un sindacalista e una eroinomane (no, non mi sono messo a raccontare una barzelletta, quando dico di voler fare una recensione, io la faccio) che, da diversi punti di vista, cercano di tirare fuori Denzel dal pasticcio di aver pilotato (e salvato) un Boeing sotto l’effetto di alcol e droga. E il film diventa un caso umano, lasciandosi alle spalle splendidi effetti speciali, ematomi sulla testa delle hostess e passeggeri isterici.
E mentre il tuo cervello ti dice “peccato”, un’altra parte del cervello (forse quella femminile) comincia ad apprezzare persino il film che hai di fronte, perché la recitazione è straordinaria, la questione etica sollevata è importante, e l’interesse per il destino di questo scapestrato eroe attaccato alla bottiglia comincia a starti a cuore.
Una regia mai sopra le righe (e forse troppo defilata) non appesantisce la pellicola, che, nonostante il raggiro, è godibile e fa riflettere. Ciò non toglie che questa doveva essere l’ignorantissima storia di un disastro aereo, e a te rimane solo una riflessione etica sul concetto di “eroe”, e sulle scelte che ogni giorno ci troviamo a compiere senza badare alle conseguenze.
Il film ti è persino piaciuto, ma se da un lato il cervello è rimasto soddisfatto, essendo Flight in parte il proverbiale “cibo per la mente”, lo stomaco ha protestato, perché neanche un dannato pop-corn ti sei potuto mangiare. Resta il fatto che intitolare Flight un film in cui per il 97% del tempo si sta con i piedi per terra (e senza Boeing a rovescio hostess defunte e passeggeri nevrastenici), sarebbe stato come prendere Matrix e intitolarlo L’Hacker.
Insomma, un titolo furbetto, come direbbe il nostro Carlo Vanin.