Sul ponte sventola bandiera bianca. Marco Azzalini saluta e ricorda Franco Battiato, un gigante della cultura italiana.
Adesso che se ne è andato per davvero, dopo una sorta di dissolvenza sembrata ben più lunga di questo pugno d’anni, vien da chiedersi di quale pasta fosse fatto il fascino profondo e universale che Franco Battiato ha esercitato lungo il suo eclettico percorso professionale, artistico, umano.
Si tende a dire di tutto, in questi casi, ma forse il tratto saliente dell’opera di Battiato ha a che vedere con la dimensione delle cose, di tutte le cose, e con l’idea spesso inadeguata che noi ne portiamo dentro.
Battiato sapeva raccontare il grande e il difficile come le minuzie, avvicinando dettagli e sapienti suggestioni, appariva etereo ma era concretissimo, ieratico ma divertente, autorevole ma non arrogante.
Sembrava perdersi in orizzonti smisurati e massimi sistemi e poi ci si accorgeva che allo stesso tempo parlava soprattutto e per lo più di noi, di ognuno di noi, sbattendoci in faccia la sconcertante congruenza e l’apparente facilità con cui sapeva far tornare tutti i conti anche dei più arditi testi o delle più singolari partiture, allo stesso modo con cui trafficava, disinvolto e concentrato, con i primi sintetizzatori, con strumenti elettrici e orchestra.
Il tutto con una fluidità empatica che lo aveva alla fin fine fatto entrare nel cuore e nella testa di una moltitudine di persone diversissime per gusti, estrazioni, vocazioni, interessi. Un risultato enorme e rarissimo.
Questa sintonia peculiare, coltivata ai più alti livelli, doveva far imbestialire quelli che si trincerano dietro al maldestro e malinteso vanto di sezionare il popolare e il colto, il ricercato e il dozzinale, il facile e il sofisticato, la ricerca ed il racconto.
Con rigorosa lievità e il garbo schivo di sempre, Franco Battiato li faceva apparire ridicoli, più ancora li faceva apparire ottusi. Perché lui raccontava Berlino est attraverso un delicato bozzetto di grigi e una storia un po’ sbilenca e misteriosa dove c’entrava una bidella stanca che aiutava un anonimo qualcuno, ma nello stesso, asciutto testo c’erano la cortina di ferro, i viali deserti, il teatro, Schubert. Neorealismo e Check Point Charlie, nouvelle vague e il ponte delle spie, il pubblico e il privato.
Di volta in volta, senza mai perdere un colpo e mantenendo tutto in bilico, parlava di rasoi elettrici e di profughi afghani, di mistici e di sesso senza sentimenti, di mescalina e navigatori, di cieli infernali, del Rio delle Amazzoni e di Alessandria la grande. C’erano le strade di Mosca o di Pechino, la fortezza Bastiani e l’oppio che costava meno di una birra. C’erano il greco antico e il tedesco, l’inglese e le lingue orientali, il siciliano e il silenzio. C’erano l’incommensurabilità (No time, no space) e l’ombra della luce, le patrie e il re del mondo, il magic shop, con la frase del Vangelo da cui dedurre che un imbianchino è meglio di Le Corbusier.
C’era l’amore della Cura e quello della canzone che ne descriveva la stagione: e ti sorprendevi a riflettere su come chiamiamo le cose con lo stesso nome, a volte, ma in realtà intendiamo altro. Al centro, sempre una questione di dimensione, di latitudine delle idee, degli spazi, dei luoghi, della storia, delle emozioni, in definitiva di estensione di tutti noi.
Non c’era niente di “leggero” in Battiato anche e soprattutto perché non c’era nulla di “pesante”, o meglio, a voler applicare questo binomio si fraintenderebbe tutto il senso di un lavoro teso a difendere la qualità del discorso proprio da quei dogmi che rischiano di adulterarla e limitarla. Se qualcosa appariva ostico o astruso, subito dopo arrivava qualcos’altro che non lo era affatto e allora anche il difficile finiva con l’incuriosire di più, col richiamare l’attenzione.
Quando si afferma che Battiato è un enigma, occorrerebbe chiedersi se ci fosse poi tanto da spiegare, al di là di una ricerca di equilibrio e significato volta, appunto, a offrire una idea nuova di distanza: in ogni prossimità, c’è una parte di insondabile; in ogni sonorità, c’è una potenziale dissonanza e viceversa; in ogni sacro, del profano e in ogni mistica un riscontro; in ogni vicenda personale, solo apparentemente limitata, c’è un riflesso delle grandi costruzioni, delle grandi idee, dei grandi sentimenti, dei grandi drammi collettivi e della bizzarra poesia della realtà. Tutto si lega e da sempre, e forse per sempre, si fatica a capirlo. Questo, Battiato lo ha mostrato meglio di ogni altro, perché lui sapeva svelare l’altra parte del tempo, l’altra faccia del reale, una prospettiva alternativa che univa le cose, e questo accadeva anche quanto interpretava brani non suoi, sapientemente scelti e magistralmente impiegati per una raffinata, ulteriore resa di quel continuo gioco di specchi.
Si è detto che l’ultimo inedito pubblicato suonava fin troppo “battiatesco”, e se da un lato l’appunto era ingeneroso verso tre minuti che racchiudevano, come sempre a livelli d’eccellenza, la sintesi di molti discorsi, dall’altro quella marchiatura presupponeva il riconoscimento implicito della dimensione oramai classica che una certa linea di ricerca di Battiato aveva assunto, di un certo colore musicale che rimandava con precisione a lui, quasi a chiudere il cerchio di quell’ampiezza controllata che teneva dentro l’elettronica e le sinfonie, il grande e il piccolo, l’amore e le frivolezze umane e i capricci della storia, il detto e l’inespresso, il sorriso e il dolore, il suono e il silenzio.
In realtà, in quei tre minuti, con una voce sottile ma tutt’altro che remota Battiato tirava le somme di una vita e una poetica che, forse prima di tutto e certamente più di molte altre, hanno saputo mostrare che distante non vuol dire lontano, che universale non vuol dire meno personale, che ironico non significa superficiale, che la carnalità e lo spirito sono meno slegati di quanto talora si voglia dare a intendere e che non solo i distretti del nostro mondo, ma anche le visioni di altri mondi, che da sempre coltiviamo, fanno parte di un tutto unitario, meno incoerente di quanto si creda, se visto e raccontato nella giusta prospettiva.
Un messaggio di continuità e di armonia, che risuona come l’eco dei passi di questo lungo addio che diversamente da quello di chandleriana memoria non sottende un equivoco, ma un chiarimento: “finché non saremo liberi, torneremo ancora…”.