Garzone di bottega, un racconto inedito di Stefano Zattera per Sugarpulp MAGAZINE

Questo racconto è basato sui racconti di mio padre, quattordicenne durante la resistenza. Troppo piccolo per prenderne parte attivamente. Troppo grande per non rendersi conto di quello che stava succedendo. (ndA)

I nodi della radica sembravano occhi terrorizzati e bocche urlanti circondate da venature rosso fuoco. Un girone di anime dannate che ardevano tra le fiamme dell’inferno.

Il ragazzo guardava il foglio di piallaccio per prendere spunto mentre con un pennello inzuppato di tinta noce impreziosiva l’anta dell’armadio in pino, o pesso, come lo chiamavano i vecchi falegnami.

Era quello il suo compito in bottega. Riprodurre le venature dei legni pregiati su tavole scadenti destinate al mobilio economico.

Era stato assegnato a quell’incarico per quella sua innata abilità nel disegno.

Il ragazzo era dotato e i suoi avevano provato a fargli fare le medie nella vicina cittadina, Valdagno. Ma lo avevano pescato a bighellonare e allora suo padre lo aveva caricato sul palo della bici e portato nella grossa falegnameria del paese dove un parente aveva messo una buona parola per farlo assumere come bocia di bottega.

E adesso Silvio era lì a dipingere. Ma quel giorno aveva indugiato troppo nel riprodurre quei nodi e nel circondarli di venature. Adesso sembravano proprio gli occhi, la bocca e il naso di un teschio.

Già altre volte si era lasciato prendere dal vezzo e aveva abbozzato facce e animali tra le venature di qualche anta d’armadio. Ma era stato attento a mimetizzarli bene. A renderli appena percettibili. Era la sua firma, il suo tocco segreto.

Stavolta invece la cosa era troppo evidente. Se se ne fosse accorto il capo si sarebbe preso una bella ramanzina.

Stava cercando di rimediare quando entrarono nel suo campo visivo dei pantaloni macchiati. Di chi erano? Era stato lui a sporcarli?

“Cosa fai bocia? Lo stemma della Decima Mas? Ha ha ha!”. La voce greve e cavernosa gli arrivò dall’alto come il tuono di un temporale.

Il ragazzo alzò la testa e si trovò davanti un bestione vestito di nero con le mani sporche di sangue.

“Dov’è il capo?”, urlò lo squadrista, “Devo ordinare cinque bare”.

Il ragazzo impietrito non disse una parola e guardò quell’omone in faccia indicando con il dito il magazzino.

In quel mentre l’artigiano sbucò nel laboratorio con in mano l’estremità di una tavola. Venne avanti finché non entrò l’altro capo del pezzo di legno sorretto da un altro falegname.

“Salve Mattio” urlò l’omaccione, “mi servono delle casse da morto. Falle pure con legno tarlato, tanto son per cinque schifosi comunisti. Prima marciscono meglio è! Ha ha ha!” ancora una volta il gigante fu l’unico a ridere delle sue battute.

Tutti guardavano ammutoliti quella bestia nera sporca di sangue, spavalda e arrogante che ghignava parlando di morti. Era il capoccia delle camicie nere del paese. Il più violento. Uno che già prima di aderire al fascismo, da giovanissimo, era conosciuto in paese per la sua inclinazione a menare le mani.

L’uomo non curante della tensione che le sue mani insanguinate e le sue risate avevano provocato si mise a raccontare quello che era accaduto.

Ne era venuta giù tanta quell’anno, quasi un metro. Le camicie nere annaspavano nella neve come scarafaggi nel latte cagliato. Stavano circondando la contrada Grilli nella penombra dell’alba invernale. C’era stata una soffiata riguardo un buso. Un rifugio sotterraneo scavato nel pavimento di una stalla con l’entrata mimetizzata dove si nascondevano dei partigiani.

Gli squadristi, una cinquantina, presero posizione nascondendosi dietro i cumuli di neve in attesa dell’ordine.

Il sole si divincolò dal profilo delle dolomiti e si scrollò di dosso le nuvole tingendo di rosa le case di corte. Il silenzio ovattato venne trafitto dall’esibizione – inconsapevole segnale di sventura – di un gallo ritardatario.

“Diamo l’ordine comandante?” disse il caposquadra spegnendo la sigaretta nella coltre bianca.
“Si, va ben… No! Silenzio”.

Garzone di bottega

Il crepitio dei passi sulla neve crebbe d’intensità finche da dietro la curva non sbucò un gruppo di persone.

“Partigiani!” urlò il comandante, “prendeteli”.

Gli squadristi saltarono fuori dai nascondigli e si lanciarono all’inseguimento. Il gruppetto di ribelli, di fronte a un tale numero di fascisti, scattò in ritirata. Colpi di moschetto saturarono l’aria.

Un fuggitivo cadde a terra macchiando di rosso il candore ghiacciato. Un altro inciampò su una radice che sbucava dalla neve come una mano del demonio e i fascisti lo raggiunsero.

Un altro ancora si fermò e fece per tornare indietro in aiuto del compagno ma gli venne intimato di arrendersi. Gli altri riuscirono a raggiungere il bosco e disperdersi. I due prigionieri e il cadavere furono trascinati nella corte.

“Bene!” disse il comandante, “Tre! Ancora prima di aprire il buso! La matina impiena la manina!”.

Le risate dei camerati riecheggiarono tra le case come latrati di cani.

“Portatemi Faccin” tuonò ancora l’ufficiale.

Gli squadristi sfondarono la porta, trascinarono fuori tutta la famiglia e portarono il padrone di casa davanti al capoccia.

“Sappiamo che nascondi dei partigiani. Dicci dove e te la cavi”.
“Non so niente” rispose il contadino. “Non nascondo nessuno!”.
“Ho sentito abbastanza, andate a prendere quegli schifosi!”.

Le camicie nere entrarono nella stalla e sfasciarono la grippia con i calci dei fucili. Sotto la mangiatoia apparve una botola.

Erano andati a colpo sicuro. Chi aveva fatto la soffiata non si era sbagliato.

“Venite fuori a mani alzate!” urlò il comandante entrando nella stalla. “Siamo in cinquanta qua fuori. Non fate scherzi”.

I ragazzi restarono come paralizzati nel buio, trattenendo il respiro. Uno dei due strinse il braccio dell’altro come per aiutarlo a trattenere ogni minimo movimento. Sapevano che non c’era nessuna possibilità che i fascisti se ne andassero senza aprire.

Eppure un fioco barlume di speranza, alimentato dalla paura, li faceva rimanere immobili, lì, in quel buco scavato nel terreno a cercar di prolungare anche solo di un attimo la libertà, o la vita.

“Stiamo per aprire!” urlò di nuovo il comandante, “Gettate le armi!”.

Un camerata infilò la baionetta nella fessura tra le assi e fece leva sollevando di scatto la botola.

La luce del mattino azzannò gli occhi dei due partigiani assuefatti all’oscurità. Quando iniziarono ad abituarsi al giorno si trovarono puntati addosso una ventina di moschetti, come serpenti pronti a morderli. Uscirono con le mani in alto.

Trascinati nella corte vennero legati, assieme agli altri due loro compagni, alle inferiante delle finestre come eretici medievali nelle segrete di un castello.

Il comandante chiese loro di dire dove si trovavano gli altri partigiani del loro gruppo. I quattro sventurati risposero che non lo sapevano, che il gruppo era sempre in movimento, che quelli sfuggiti alla cattura avevano già avvertito gli altri e si erano sicuramente spostati.

Su un cenno del capitano quattro camicie nere abbassarono pantaloni e mutande ai ribelli. E cominciarono a frustarli con un nervo di bue sull’inguine e sulle coscie.

Le urla dei torturati si levarono alte nel cielo lacerando la bianca quiete delle colline.

In realtà i fascisti sapevano bene che i quattro giovani non potevano dargli informazioni preziose ma quelle sevizie dovevano servire da lezione, dovevano essere una dimostrazione di forza di fronte agli abitanti della contrada. Li torturarono a lungo ottenendo come risposta solo grida di dolore.

Uno dei torturati era il figlio del padrone della stalla e i suoi famigliari piangevano implorando il comandante di avere pietà.

Allora il capo degli squadristi ordinò di prendere il capofamiglia. Fu trascinato in fondo alla corte, legato ad un palo e anche lui fu picchiato selvaggiamente e lasciato quasi incosciente.

Quando Faccin aprì gli occhi gonfi vide le goccie di sangue che colavano dal suo naso disegnando nella neve un volto grottesco che sembravano urlare. Poi realizzò che erano le urla dei ragazzi che continuavano a essere picchiati.

Alzò lo sguardo e si trovò di fronte la cosa peggiore che mai potesse vedere in quel momento. Il corpo del soldato ucciso nella sparatoria giaceva davanti a lui sulla neve intrisa di sangue.

Prima da lontano non riusciva ad identificarlo, ma ora che era li vicino a lui si rese conto di chi si trattava. La disperazione più nera esplose nel cuore del contadino. Era martoriato nel corpo e devastato nell’anima.

Come poteva quel Dio che aveva pregato per tutta una vita fargli questo? Per una sorte beffarda e disgraziata il partigiano colpito a morte durante l’inseguimento era l’altro suo figlio che probabilmente stava venendo a trovare il fratello. La coincidenza del fato era insostenibile e perse conoscenza.

Dopo più di tre ore di supplizio il comandante diede l’ordine di slegare i partigiani. Gli squadristi che non avevano preso parte alla tortura attivamente si avvicinarono per dare il loro contributo. Si accanirono su quei corpi già fiaccati e feriti oltre ogni limite, straziandoli con calci, pugni e baionette fino a che non furono solo involucri sfigurati e inanimati.

Il più grosso degli sgherri, per pura crudeltà, infierì ulteriormente su uno dei corpi privi di vita tagliandogli i genitali e infilandoglieli in bocca. Nel far questo si sporcò le mani e i pantaloni.

Silvio era senza fiato. Guardava quell’uomo che rideva dopo aver raccontato la sua sanguinaria versione dei fatti.

Sapeva chi era, tutti lo conoscevano a Cornedo. Quell’uomo aveva il suo cognome. Zattera come lui. Non erano parenti, ma molto probabilmente avevano un antenato in comune. Non riusciva a credere di avere un legame di sangue con quella bestia, non si capacitava di far parte di quella stirpe.

Quello era un fascista, uno squadrista che si divertiva a terrorizzare la gente in paese. Un attaccabrighe che aveva trovato, nell’aderenza alle camicie nere, il suo habitat naturale. Un rappresentante di quel regime che aveva oppresso il popolo, messo al confino i dissidenti, creato leggi razziali, mandato al macello tanti giovani in guerre assurde e inconcludenti – come tutte le guerre del resto.

Si ricordò di quella volta, due anni prima che con i suoi coetanei aveva dovuto fare il picchetto d’onore sulla bara vuota di uno del paese caduto nella campagna di Grecia.

Aveva dovuto indossare anche lui la camicia nera. L’uniforme da piccolo Balilla e con il moschetto scarico fare il presentat’arm al funerale del giovane. Già allora non gli era piaciuto indossare quegli abiti. Era piccolo, inconsapevole e non sapeva il perché ma il nero non gli piaceva.

Un regime che sceglie di vestire i suoi rappresentanti con un colore legato all’oscurità e alla paura, ha qualcosa di inquietante.

Bandiere e camicie nere, fasci da combattimento, pugnali e teschi. Una simbologia che è già una dichiarazione di intenti.

Il ragazzo abitava in contrada Canova, la piccola Russia, come la chiamavano in paese per via dell’alta percentuale di comunisti che vi risiedeva.

Era cresciuto in un ambiente ostile al regime e di storie di violenza e soprusi ne aveva sentite tante. Si era parlato tanto in quegli ultimi mesi delle azioni partigiane e delle rappresaglie nazi-fasciste.

Ma era la prima volta che vedeva il sangue. Era la prima volta che l’omicidio gli arrivava così vicino. Ora tutto gli sembrava più vero.

Il sangue secco sulle mani, sul manico della baionetta e sui pantaloni era la prova inequivocabile. Quell’uomo, lì davanti a lui, aveva torturato e ucciso dei partigiani solo poche ore prima. Adesso la pericolosità di quella gente gli era chiara e tangibile.

Un nuovo ricordo gli balenò in mente.

L’estate prima con suo cugino e altri due della contrada avevano compiuto una bravata. Un furto al deposito mezzi dei tedeschi insediati in paese. Avevano scavalcato il recinto e, in barba alla sentinella, erano saliti sul cassone prendendo qualche attrezzo.

Silvio aveva rubato una morsa di ferro. Era nuova, lucida, uno spettacolo! L’avrebbe montata sul tavolo per fare qualche lavoretto in casa. Nessuno aveva una cosa del genere in contrada.

Poi scavalcando il muro di cinta il cugino aveva fatto cadere un sasso e la sentinella aveva intimato il chi va là.

I ragazzi avevano saltato ed erano partiti di corsa e il militare aveva sparato un colpo in aria.

Ma loro non si erano fermati. Nel silenzio del coprifuoco serale si sentivano le sgambare – scarpe con la suola di legno – che battevano il ritmo della fuga sui ciottoli.

Quanto avevano riso a casa di quello che avevamo combinato. Solo ora si rendeva conto di quello che aveva rischiato. Quella gente non scherzava.

Il rombo del motore messo in moto lo riportò al presente.

Com’era arrivato l’uomo nero se ne andò continuando a ridere da solo delle sue battute macabre.

Silvio lo vide salire sul camion e allontanarsi. Guardò il teschio che aveva abbozzato tra le false venature del legno.

Prese il pennello intriso di tinta e dissolse quel simbolo di morte in un macchia confusa.