Gin And Tonic Blues, un racconto inedit di Armando Autieri per Sugarpulp

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Le occasioni sono come i treni: una volta passate, non si possono prendere più. Io di occasioni in vita mia me ne sono fatte sfuggire un fottio. Dev’essere per questo che, adesso, ho scelto come dimora la stazione dei treni. A imperituro ricordo di tutte le stronzate fatte, di tutte le chimere inseguite, di tutti i sogni infranti causati e causatimi.

Ho iniziato abbastanza presto a far casini a scuola e a sputtanarmi con i miei. Mi sono messo a spacciare le cale a sedici anni, e fu facile per amici e clienti troncarmi il cognome. Mi chiamo Dario Sanfelice, ma da quand’ero adolescente mi chiamano “Sanfe”, un nome azzeccato per vari motivi. Uno dei quali è che il mio cervello è bruciato dallo speed.

Da un anno mi ritrovo a vagare in questo cesso di stazione di paese. Fa caldo, l’estate tardiva ha dimenticato i giorni freddi di fine maggio e sembra di stare in un forno. In particolar modo adesso, mezzanotte passata, ci si scioglie nell’afa padana. Con me, presenze invisibili ma costanti. Gli innamoratini slinguazzanti, un paio di pusher che vanno/tornano da lavoro, un terzetto di barboni più o meno giovani come me e il Vandelli (io lo chiamo così perché assomiglia a Maurizio Vandelli, il cantante, e mi pare che si chiami Maurizio pure lui) un anziano pederasta che ogni tanto cerca di toccarmi il cazzo mentre dormo. E’ qui ogni notte in cerca di qualche fuggiasco in grado di cacciargli il mal di vivere fuori dall’uccello.

Ci sono e li vedo, ma sono come gufi nella notte, rapaci e sfuggenti. Oggi non mi è andata tanto male. Sono riuscito a mangiare tre panini buttati via dal McDonalds recuperati dai cassonetti, e ne ho salvati un paio per domani mattina. Ora vado a sistemarmi sul treno immobile del binario 7, in tasca un pacchetto di Chesterfield quasi pieno che ho trovato, botta di culo, sul viale qui di fronte.

Arrivo al treno e ci entro dentro. Di solito c’è un puzzo pernicioso di sigarette, scoregge vecchie e piscio, familiare in quanto è tutta roba mia. Nessuno entra nel vagone, altrimenti gli spacco la testa a catenate. Ma stasera c’è un odore diverso. E sento anche un rumore. Mi precipito nello scompartimento dove dormo e c’è un’ombra. Si muove. Metto a fuoco ed è una donna. Una ragazza, giovane. Mi sorride e a me, passata la tensione, viene una sorta di buonumore. Mi siedo di fronte a lei.

“Ciao – mi fa – sono Chiara”.
“Piacere, sono Sanfe. Che ci fai qui?”.
“Il mio ragazzo mi ha mollato qui in questo posto di merda e ho deciso di venirmi a sistemare qui per la notte. E’ un problema? Riparto domani mattina con il primo treno per San Bonifacio”.
“Certo che no, tesoro”, e spalanco il mio sorriso migliore. Migliore poi, ho tutti i denti mangiati dalla nicotina e da anni di inimicizia con dentifricio e spazzolino. Ma la luce dei neon della stazione arriva sporca e flebile nello scompartimento. Non se ne accorgerà.

“Ho qui del gin e dell’acqua tonica – riprende la fatina – e un bicchiere”, e così facendo apre una busta di plastica del supermercato. Dentro ci sono tre bottiglie di Bombay Sapphire e una di Schweppes tonica più qualche bicchiere di plastica. Questa stronzetta sa davvero come si improvvisa una festa. Mi piace sempre di più.

“Ottimo”, le dico, “vorrà dire che aspetteremo svegli il treno per… per… dove hai detto di dover andare?”, biascico ipnotizzato dalla sua scollatura. In realtà ha le tette piccole, ma quel poco che offre è per metà in mostra. Abbastanza per risvegliare i miei sensi, morti ammazzati da un secolo di mancanza di chiavate e pugnette tristi.

“San Bonifacio”, dice lei, stappando la bottiglia azzurra. Ha già due bicchieri di plastica rossi sistemati in mezzo alle gambe. Qui promette bene.

“Giusto, la ridente San Bonifacio. Non proprio a portata di zampa, eh, Chiara?”, faccio il simpatico. Lei non risponde, fa solo un sorrisetto. La guardo bene, e in effetti non sarebbe male come tipa. Un po’ malmessa, capelli tinti, scoloriti, di un tono indefinibile, la pelle della faccia pallida e cascante, rovinata. E’ molto magra, ma di una magrezza malata. Dev’essere una sbevazzona, e il fidanzato stronzo la pianta qui, un vero pezzo di merda. Si sa, questo paesone è un casino, violento e pieno di mostri e spacciatori e gente che fa le fiaccolate per mandarli, anzi, mandarci tutti fuori dai coglioni in modo da potersi godere in pace la morte lenta formata dal trittico lavoro-casa-televisione. Accendo una sigaretta e lei mi fa cenno di volerne una. Ha quasi finito di miscelare la Schweppes con il gin.

Mi allunga il bicchiere, con un gesto quasi sacrale. Degli sconvoltoni – ma lo sono anch’io del resto – detesto questa venerazione per alcool e stupefacenti. La mitologia della droga con i suoi riti e le sue liturgie, nate rubacchiando gesti ai tossici di tante generazioni perdute precedenti, ha mandato a puttane un sacco di cervelli, il mio compreso. A me ne è rimasto abbastanza per accorgermene, però.

“Alla salute!”, esclamo mentre la guardo ferino e avvicino il gin tonic alle labbra.
“Alla nostra!”, gorgheggia lei, e cala il bicchiere pieno. Cazzo se beve forte!
“Dunque Chiara, abbiamo tutta la notte, parlami un po’ di te”.
“Che ti devo dire? Sono studentessa al terzo anno di architettura, sto assieme a uno stronzo che domani pianterò perché mi tratta come una pezza da culo. Vivo con i miei, ma loro mi odiano. Questo è quanto”.
“D’accordo, d’accordo. Sei una tipa di poche parole. Versami un altro po’ di gin”.

La notte prosegue tra poche chiacchiere e tanti bicchieri versati, tra una sigaretta e l’altra. Io finisco il mio pacchetto, ma lei tira fuori una busta di tabacco Old Holborn e ci mettiamo a rollare. Accidenti se sono sbronzo!

“Mi dispiace, avevo un po’ di marocchino ma l’ho lasciato nel giubbotto di Lorenzo”.

Dev’essere il suo uomo. Chi cazzo se ne frega. Vorrei scoparmela, secondo me ci starebbe pure, ma l’alcool ha finito di intorpidirmi tutto il sistema idraulico laggiù. Mi sento una merda abbrutita.

“Non fa niente”, dico con una voce che non sembra la mia. Rimbomba da un punto all’altro dello scompartimento e rientra aliena nelle mie orecchie. L’immagine di Chiara è sdoppiata, sfocata.

“Quanto gin è rimasto?”, chiedo rauco.
“Mezza bottiglia, e la tonica è finita. Meglio darci un taglio, io sono già abbastanza fuori e non voglio perdere il primo treno, domani”. Dopo pochi minuti, eccola lì che ronfa, vinta dalla sbornia e dalla stanchezza. Sembra che abbia una trombetta al posto del naso dal casino che fa.

Io sono troppo ubriaco adesso, davvero. Lo scompartimento puzzolente gira come una ruota. Con grandissima difficoltà mi alzo e mi avvicino alla ragazza. Dorme rannicchiata nella poltroncina piena di macchie e graffiti osceni, avvinghiata alla bottiglia come se fosse il suo orsacchiotto di peluche. L’avrà mai avuto un orsetto? E che nome gli avrà dato? Teddy? Chi cazzo se ne frega.
Sono in piedi e cerco di levarle la bottiglia dalle mani, ma lei con un gemito da sonno profondo si gira dall’altra parte.

“Chiara? Chiara? E molla ‘sta cazzo di botttiglia…” Cado di brutto sul sedile di fianco al suo. Mi sento proprio un deficcente. Finalmente riesco a rialzarmi. I panini schifosi hanno preso l’ascensore nella mia pancia. Afferro la bottiglia e con uno strappo me ne impossesso. Tenendomi ben saldo con una mano alle mensole dello scompartimento mi tengo in equilibrio. Sono di fronte a lei e ho il Bombay nell’altra mano. Alzo la bottiglia e la bevo alla goccia con un gesto trionfante. La mia testa è rovesciata tutta all’indietro. Il braccio alzato, finito il liquore, mi cede di schianto.

CRASH!

“Oh no, cazzo… No! Cazzo no!” L’ho presa in pieno con la bottiglia che si è frantumata in tanti piccoli zaffiri. In testa. Cazzo, senza volere l’ho colpita. Il braccio, mentre finivo di bere, mi è cascato da solo con violenza e l’ho colpita. Porca troia le sta uscendo un fottio di sangue, ha un taglio profondo appena sopra la fronte, e un bernoccolo bello grosso.

“Chiara? Chiara!”, cerco di scuoterla, ma non risponde e non da segni di vita. La sbronza mi è passata, almeno credo. “Chiara rispondimi! Oh cazzo, l’ho ammazzata!”. Il panico è acido, mi entra nelle fibre muscolari. Stavolta l’ho fatta grossa. Ho ammazzato una ragazza senza volerlo. Che cosa posso fare adesso?

Sono teso, troppo. Lo stomaco fa un brutto rumore, e d’improvviso vomito addosso al corpo di Chiara i panini schifosi e gran parte dell’alcool. Vedo i pezzi di hamburger sulle sue braccia nude, e le salse chimiche senape e ketchup formano un disegno disgustoso. Un secondo conato apre la pista a un altro rovescio sulla povera ragazza. La prendo in piena faccia.

Non solo l’ho fatta fuori, ma ora ne sto pure oltraggiando il cadavere. Devo farmi venire un’idea invece di piagnucolare. Ci sono! A pochi metri da qui c’è una buca scavata dagli operai che stanno facendo i lavori di ampliamento della stazione. Il terreno è fresco, posso fare una buca e gettarci dentro il corpo di questa poveretta, e nessuno la noterà. Appena finisco è meglio se me la do a gambe, sperando che non trovino il cadavere troppo presto. Qui è meglio se non mi faccio più rivedere.

Afferro Chiara per le gambe e la trascino fuori dallo scompartimento. Apro la porta del vagone e mi metto il cadavere in spalla, con cura. Pochi passi e arrivo finalmente alla buca. Per fortuna hanno lasciato le pale appoggiate al cesso chimico poco distante. Inizio a scavare con lena una buca profonda un paio di metri. La terra è morbida e non fatico troppo. Con cautela e attenzione appoggio Chiara sul fondo della fossa. Dico quello che dovrebbe essere un requiem e riempio di terra la tomba della povera morta.

Sono quasi arrivato alla fine quando sento un rumore dalla siepe lì accanto. Mi giro per guardare meglio e vedo un’ombra sgattaiolare via, fondendosi con l’oscurità. Dopo pochi secondi dalla siepe sbuca il Vandelli, quello schifoso, che si sta tirando su i calzoni bianchi.

“Che stai facendo?”, mi chiede con quella sua voce squillante.
“E fatti i cazzi tuoi, vomito umano!”, gli urlo di rimando.
“Guarda che ti ho visto!”, mi risponde.

Gli faccio un ringhio e anche lui scappa via, spaventato dalla mia espressione feroce. Con la forza della disperazione finisco di buttare la terra su quella triste tomba e corro via, sui binari, diretto verso la stazione. Sparirò per sempre da questo paese maledetto. Forse me ne torno a casa dei miei a Viterbo.

Proprio quando sono sul binario numero 2, passa il treno merci delle 4,47. Vedo solo le luci del locomotore e non sento nemmeno lo schianto sul mio corpo.
Dai giornali del giorno dopo:

Orrore alla stazione di Castelfranco
Omicidio – suicidio nel mondo della droga

È stato ritrovato nella stazione di Castelfranco Veneto il corpo di una ragazza ventiduenne di San Bonifacio (VR), Chiara Putelli, uccisa ieri notte da un senza fissa dimora italiano di trentadue anni, Dario Sanfelice, noto alle forze dell’ordine come tossicodipendente e spacciatore. Dopo aver ucciso la giovane Sanfelice si è tolto la vita gettandosi sotto un treno. Il corpo senza vita della giovane, anche lei con precedenti per droga, è stato scoperto in una fossa.

Sanfelice l’ha sepolta viva e l’ha lasciata morire soffocata, dopo averla presumibilmente torturata. Il cadavere della Putelli presentava una ferita non seria alla testa, provocata da una bottigliata, e qualche escoriazione. A dare l’allarme è stato un pensionato residente a Castelfranco, Maurizio Di Vita, unico testimone del fatto. Ha notato il Sanfelice armeggiare attorno a una delle buche che gli operai stanno scavando alla stazione per lavori di ampliamento.

Di Vita ha avvisato i carabinieri che si sono recati sul luogo e hanno fatto la macabra scoperta. “Era un pazzo e sapevo che un giorno o l’altro avrebbe compiuto un gesto sconsiderato”, ha riferito il testimone.