La storia viene separata dalla preistoria dall’invenzione della scrittura.
Grazie, e il papa è cattolico, direte voi. Prego, dico io, ma aspettate che vada avanti.
Il motivo di questa divisione è molto semplice: della preistoria non possiamo avere memoria scritta. Della storia sì. Come dire: gli scrittori, quei tizi che fumano e bevono troppo e che spesso sono parecchio strani, sono i depositari della nostra memoria.
Che fortuna, direte voi. Ci poteva andare peggio, dico io.

Massimiliano Santarossa, classe ’74, furlan di Villanova, è uno di quegli scrittori che ha vissuto le cose di cui scrive e La sua seconda opera “Gioventù d’asfalto” ha proprio a che fare con la memoria, sua e in parte nostra.

I racconti di “Gioventù d’asfalto” ruotano attorno ad un gruppo di giovani, un “branco” di periferia che diventa di volta in volta, di racconto in racconto, protagonista e osservatore. Protagonista di serate etiliche ed esagerate e osservatore di una nutrita schiera personaggi che si trovano a frequentare la vecchia osteria del paese all’inizio degli anni ’90, in un periodo di profondo cambiamento sociale per l’Italia.

La periferia è il palco ideale delle storie di Santarossa ma, come ci ammonisce un innominato amico scrittore del Nostro dalle pagine del libro: “Ormai il concetto di centro e periferia, di città e paese è superato.E’ tutto uguale, le distanze sono cadute.” Lo sa bene chi vive in quei territori che separano le grandi città, che ormai sembrano assomigliare sempre di più ad un unico agglomerato di strade e casermoni, in cui il cemento, letale come un virus fuori controllo, assorbe e divora le campagne, le coltivazioni e i riti della natura ad esse collegati.

“E’ tutto uguale.” Sì, tutto grigio. Le città sono diventate “come polpi neri di cemento e asfalto” ci dice Cristiano, ventunenne, falegname (nomen omen?) addetto alla sega circolare da sei anni. Uno dei primi personaggi “osservati” dallo sguardo del branco e di Santarossa. Nel suo racconto, emblematico dell’opera, si nota forse il paradosso di una società che ci toglie cinque giorni di vita alla settimana e ci lascia ogni lunedì col miraggio distante delle ore 16.00 del sabato, un sabato che per Cristiano e molti giovani come lui, invecchiati precocemente a causa di una routine lavorativa da automi decerebrati, sarà sballato, allucinante e votato alle sostanze che portano l’oblio.
La storia di Cristiano, la seconda che troverete nella raccolta, ci è utile anche per definire lo stile di Santarossa che, come scrive lui stesso, è al servizio di storie che sono “come un’autopsia” in cui la parola è come “un bisturi” che taglia la carne e i muscoli della realtà con severità e precisione. Dall’autopsia dell’agglomerato urbano, territorio di confine ma in un certo modo onnicomprensivo, patria della dimenticanza (sia essa provocata dallo sballo o dalla fabbrica o dalla tv) escono le storie di “Gioventù d’asfalto”, testimonianze vive di una guerra che non si può più combattere né vincere: quella con la paura.
Ed ecco che nelle storie dei personaggi di Santarossa, nelle “autopsie” senza censure di Pino il Drago l’esagerato, Cristiano il falegname, Mario il professore, Schizzo l’anarchico, Mau l’imprenditore, Alice la bella creatura e gli altri, riusciamo a scorgere, se abbiamo l’occhio giusto, ciò che oggi ci circonda, ciò che non si vorrebbe mai vedere veramente: il nostro paese, che una volta era chiamato bel.

Dei giovani (di oggi e di ieri), negli ipocriti talk-show televisivi, si parla sempre troppo e a sproposito, ma si ascolta ben poco. La grande paura che combatte il popolo di Gioventù d’asfalto è forse anche quella di essere dimenticati, di vivere una vita senza senso aggrappati al sogno falso di una ricchezza fatua o a una catena di montaggio e svegliarsi a 70 anni, per chi ci arriverà, con l’impressione di non essere più niente, di essere stato inglobato in un casermone o in un’autostrada costruiti laddove una volta, per dirla con uno dei cantanti citati solo per nome nell’opera, c’era il verde.

Ai sociologi, agli psicologi, ai sacerdoti, a chi si occupa di giovani, insomma, a chi si preoccupa un po’ per il futuro nonostante il presente abbia congelato tutto in un terribile fotogramma mosso, a chi vuole capire di cosa sta parlando veramente quando usa parole come vuoto, alienazione e “condizione giovanile” consiglio di leggere “Gioventù d’asfalto” e di riflettere, di tacere ed ascoltare per una volta, perché queste sono le nostre storie, la nostra memoria salvata dall’assedio dell’asfalto.

In extremis, mi verrebbe da aggiungere.