Glow, la recensione di Matteo Marchisio della celebrata serie Netflix ambientata nel mondo del Wrestling femminile.

Glow, ovvero Gorgeous Ladies of Wrestling: lottatrici di wrestling femminile che in una California del 1985 cercano il successo capitanate da un registra di B movies alcolizzato. Tutto materiale per una serie di qualità.

Glow, ora alla terza stagione su Netflix, è stata accolta dalla critica e dal pubblico con un entusiasmo enorme, tutto meritato, fin dal pilot. La prima stagione ha totalizzato un 97% di belle impressioni su Rotten Tomatoes, così per dirne una.

Secondo i rumors più accreditati ci si fermerà alla quarta. Si spera, visto che si tratta di un prodotto complicato e non di facile godimento, che se tirato troppo per le lunghe rischierebbe di diluire tutto quello che rende Glow degno di nota.

Una dark comedy perfettamente riuscita

Partiamo dal genere: dark-comedy di base, con drama e qualche minuscolo influsso sportivo dato che in fondo, ogni tanto, si parla di wrestling, con tanto di camei di lottatori professionisti. 

Il cast è praticamente tutto rosa: un piccolo esercito di caratteriste che nei panni di donne in cerca di qualche dollaro e un tetto sulla testa, a costo di calarsi nei panni scosciati e stereotipati di wrestler in uno show in terza serata per un’infima emittente privata.

Una trama che ha qualcosa di shakespeariano, a play within a play, dato che come presuppone il vero buon wrestling deve esserci una storia che lega gli incontri e i rapporti tra i lottatori. Così accade, e a capitanare le riprese in palazzetti sfigati degli hinterland di Los Angeles c’è un Marc Maron in stato di grazia, aiutato da un cameramen che arriva dal porno: Victor Quinaz con baffoni alla John Holmes.

Glow, disagio e divertimento

Il disagio e il divertimento sono serviti, insieme a una buona dose di riflessioni su dove possono portare le scelte sbagliate.

Il cast è un bel campionario di femminilità reietta: una reginetta del ballo decaduta, all’attricetta fallita, una donnona afro senza soldi, una party beast in disgrazia. Pochissimi maschi fanno da contorno, mai come figure positive, al massimo neutre. 

La profondità sottesa a questa serie sta nella riflessione sugli stereotipi cavalcati dentro e fuori il ring da donne in teoria liberate dai moti per l’indipendenza femminile degli anni ‘60, bloccate in una società misogina che offre poco e colpisce duro, nonostante l’esplosione economica di quel 1985. 

Glow pone costantemente il dubbio se le protagoniste sfruttino o danneggino l’immagine della donna moderna che mira al futuro spezzando la schiena ai vecchi cliché.

Allison Brie, alias Zoya the Destroya, e Betty Gilpin, sul ring Liberty Belle, incarnano al meglio il dualismo della serie. 

Entrambe accettano di essere ridicolizzate da costumi succinti, interpretare personaggi grotteschi e volgari pur di avere successo, trovandosi più di una volta combattute se sguazzare nel disagio di un’esistenza vissuta portando sullo schermo il peggio di sé stesse con un’ironia mai colta del resto del mondo, o usare il wrestling come un trampolino per qualcos’altro.

Perché nonostante tutto l’impegno, è impossibile gestire una vita piena di bei momenti e famigliole felici, se sul ring si fanno capriole in perizoma e colbacco.