Goya Enigma di Alex Connor, la recensione di Linda Talato del romanzo presentato in anteprima italiana a Chronicae, Festival Internazionale del Romanzo Storico.

Titolo: Goya Enigma
Autrice: Alex Connor
Editore: Newton Compton
PP: 384

Inizio subito col dire che questa recensione non seguirà lo schema classico, ovvero riassunto della trama, riflessioni del recensore, è piaciuto/non è piaciuto, e perché. No.

Vi chiederò uno sforzo in più e andrò oltre, spiegandovi perché, secondo me, se avete letto Dan Brown – che vi sia piaciuto oppure no – beh, dovreste leggere anche la Connor.

Era il 2016 quando mi approcciai per la prima volta a quest’autrice inglese, che qualcuno paragonava proprio a Brown. Ammetto che accolsi quel paragone con una certa freddezza: croce e delizia dei lettori, Brown o lo si odia o lo si ama – non entrerò nei meandri delle discussioni su incongruenze e diatribe legali in capo al Codice da Vinci, non è questa la sede – e io, personalmente, sono tra quelli che lo amano.

Con Goya Enigma – in uscita il 18 aprile per Newton Compton e presentato in anteprima nazionale a Chronicae – non credo di esagerare se vi dico che la Connor ha imboccato la corsia di sorpasso sul collega, e sta premendo decisamente sull’acceleratore.

Proverò a fare un’analisi per gradi sull’opera, e se avrete la pazienza di seguirmi fino alla fine, vi dirò perché la Connor fa esattamente ciò che in gergo letterario si dice “portarsi a casa la storia”, tenendo il lettore incollato sino all’ultima pagina, per poi bloccarlo proprio lì: in quei pochi, fatidici istanti in cui leggi, ti fermi, torni indietro di qualche riga, rileggi. Arrivi di nuovo alla fine, alzi gli occhi dalla pagina e rimani così, lo sguardo sospeso a fissare il nulla. E nella mente del lettore non è per niente un nulla, ma un’accozzaglia di sensazioni che suonano più o meno così: “wow!”

Non continui a girare le pagine alla ricerca di altre spiegazioni, non ti chiedi se per caso l’autore stia pensando a un seguito, se non ci sia qualcosa che ancora si poteva dire… No. Sei appagato.

È finita. La Connor si è “portata a casa la storia”.

Proviamo a capire come!

TRAMA.

Non mi dilungherò a raccontarvi molto più di ciò che potete leggere in quarta di copertina. La testa del pittore Francisco Goya viene separata dal resto del corpo dopo la sua morte, e nessuno sa che fine abbia fatto.

Fino a che Leon Golding entra in possesso del cranio ed è euforico: ha dedicato la sua intera vita a decifrare il significato nascosto dietro alla Pitture Nere, realizzate da Goya sulle pareti della Quinta del Sordo, e ora questo ritrovamento lo renderà famoso. Ciò che Leon – e suo fratello Ben – ancora non sa è che il fortunato ritrovamento scatenerà una vera e propria caccia all’uomo tra Londra, Madrid e New York, perché tutti vorranno appropriarsi della reliquia dal valore milionario.

La storia è un thriller puro, con tanto di omicidi e misteri da portare alla luce, ma la Connor si spinge un po’ più in là e confonde – positivamente – il lettore, perché ci aggiunge una pennellata di soprannaturale, con le teorie occultiste che girano attorno alle Pinturas Negras, e pure un po’ di spiritismo, inserendo una scena in cui alcuni personaggi partecipano a una seduta spiritica, e lo stesso Leon Golding crede di vedere il fantasma di Goya.

Lì il lettore si ferma e inizia a chiedersi se per caso l’autrice non stia virando verso l’horror, o comunque nel paranormal. Non vi dirò se è così oppure no, lo scoprirete leggendo.

PERSONAGGI.

Nella narrativa di genere, e in particolare nel thriller, ma un po’ anche nel fantasy e nel romanzo storico, gli “addetti ai lavori”, passatemi il termine, spesso ritengono che ci sia uno scarso approfondimento psicologico sui personaggi, in quanto il compito dell’autore è quello di tenere il lettore incollato alle pagine e col fiato sospeso, non di lanciarsi in elucubrazioni sull’ineluttabilità della vita in pieno stile Dostoevskij.

A volte capita che uno scrittore riesca a giocarsi entrambe le carte, e dare profondità psicologica ai personaggi, pur senza togliere nulla all’azione. È questo il caso della Connor, che, ancora una volta, va oltre. Se iniziate a leggere senza sapere chi sia l’autore, vi assicuro che arriverete alla fine e ancora non saprete se chi scrive è uomo o donna. Torno indietro di un passo, per capirci meglio.

A volte succede che, dal modo in cui vengono costruiti i personaggi, il lettore capisca se chi scrive è maschio o femmina. Quando ci penso, mi tornano alla mente le parole di un caro amico, che dopo aver visto la trasposizione cinematografica della saga di Twilight, mi disse: «si sente che chi ha scritto questa storia è una donna, perché un uomo come Edward Cullen, nel bene o nel male, semplicemente non esiste». E non perché è un vampiro.

Solo per farvi capire il concetto, lo stesso si potrebbe dire di Christian Grey nella serie della James, ma non mi addentro oltre nei meandri del romance/erotic/young adult, dato che non sono amante di quei generi.

Sul fronte maschile, lo stesso si potrebbe dire della classica eroina – e resto sul vago, ma so che mi capirete – che irrompe nel peggiore bar di Caracas brandendo un fucile a canne mozze mentre cammina sui tacchi a spillo e indossa la bralette di Intimissimi – magari anche una quarta misura. Spiace dovervelo dire, amici autori uomini, ma una donna così, in quel contesto, è altamente improbabile, e se avete un personaggio del genere, sappiate che farete ridere di gusto le vostre lettrici.

Tutto ciò per dire quanto conti saper costruire dei personaggi realistici.

FINALE

Nessuno spoiler, solo una nota: la prima cosa che ho chiesto ad Alex, quando ci siamo viste a Chronicae, è stata: «ma il personaggio di Leon Golding è esistito veramente?»

Non vi dirò la sua risposta, ma sono abbastanza sicura che alla fine ve lo chiederete anche voi.
Aprirei una piccola parentesi, perché questo “rischia” di diventare, per la Connor, ciò che la maggior parte degli scrittori aspira a conquistare – no, non i big money, checché se ne dica – e cioè la cosiddetta “cifra stilistica”. Quella cosa che fa dire al lettore: «eccolo! È proprio lui/lei!» Quel tocco in più grazie a cui il tuo pubblico ti riconoscerà in quelle righe nere sulla pagina bianca.

C’è qualcosa che i lettori di romanzi basati su misteri da risolvere, simbolismo e occultismo sanno, e cioè che si tratta di pura fiction. Tutti noi sappiamo che Dan Brown non ci dirà mai se davvero Maria Maddalena e Gesù Cristo hanno fondato una famiglia, e in Origin non risponderà certo alle domande “da dove veniamo?” e “dove andiamo?”. E nessuno si aspetta che lo faccia. È fiction, intrattenimento, non deve dare prove inconfutabili o nuove tesi scientifiche.

Neppure la Connor lo fa, ovviamente, quando parla delle Pitture Nere e del cranio di Goya – che nella realtà non è mai stato ritrovato – ma ci dà per un istante l’illusione di farlo. E quell’illusione fa sì che il patto tra lettore e scrittore – la temporanea sospensione della credulità – si protragga un po’ più a lungo del solito, anche dopo aver girato l’ultima pagina e chiuso il libro. Ed è così che Alexandra Connor si “porta a casa la storia”.

Note tecniche a margine: unico “neo” che ho rilevato riguarda la gestione dei punti di vista all’interno dello stesso paragrafo. A volte mutano improvvisamente e possono confondere il lettore. Forse si potevano gestire con il classico rigo vuoto di separazione tra un punto di vista e l’altro, che anche esteticamente rende bene.