Tre ore e mezza per rivivere la leggenda: i Guns’N’Roses al Firenze Rocks! La dichiarazione d’amore di Matteo Strukul per una band leggendaria.

Tre ore e mezza di concerto stellare. Tre ore e mezza per rivivere la leggenda. Tre ore e mezza per immergersi nel grande fiume del rock. Tre ore e mezza per mandare affanculo i detrattori che li davano per morti.

Sono i Guns’n’Roses: Il Rock. Punto e basta. Provare a descrivere quello che ho provato non è possibile. Sparo sulla tastiera le prime parole che mi vengono in mente: mito, talento, affetto, cura, spettacolo, divertimento, gioia incontenibile, potenza, intelligenza, un pizzico di dolcezza, sberle elettriche, umiltà.

Lo so che quest’ultima parola sembra in pieno conflitto con il concetto stesso dei Guns, per come li conosciamo, ma quando ascolti Axl mettersi al piano e attaccare l’assolo di Layla di Eric Clapton scritta quando militava nei Derek and the Dominos, con Slash a ricamare con la sua Gibson prima di scagliare la band in una lancinante November Rain o senti le note di chitarra a introdurre una versione incendiaria di Black Hole Sun con Axl che rievoca il fantasma di Chris Cornell e dei Soundgarden allora capisci che i Guns, oggi più che mai, non sono solo una band leggendaria di per sé ma sono diventati i custodi consapevoli di una musica che non si sente più, o quasi, ma che, quando torna a galla, commuove e appassiona e ti sconvolge la vita.

Questo lo scrivo a testimonianza della generosità di una band, da oltre cento milioni di copie vendute, che non ha più niente da dimostrare e che ha saputo – dopo vent’anni – uccidere i propri demoni e riunirsi di nuovo – in attesa di Izzy e Steven o Matt – e riportare in alto il vessillo del rock, una musica ormai dimenticata e che sembrava non interessare più a nessuno, con tutto l’orgoglio e la furia devastante del loro talento. Proprio come avevano fatto nella seconda metà degli anni ’80.

Quest’affermazione è talmente vera che, a ulteriore riprova, il tour cominciato due anni fa e che ha totalizzato oltre 292 milioni di dollari di biglietti, al momento, si avvia a diventare il quarto più grande incasso nella storia della musica.

Not in this Lifetime…

L’uomo che aveva risposto Not in this Lifetime – da qui il titolo del tour in piena totale autoironia… geniale – al giornalista che, solo qualche anno fa, gli chiedeva se fosse possibile una reunion con i suoi fratelli d’armi, è tornato a casa: ingrassato, con i capelli corti, i segni sul volto e una voce magari non perfetta ma che graffia ancora il cuore in un modo straordinario. Una voce che è devastante sul registro basso e sarebbe bello che – in barba a tutto e a tutti – il suo proprietario si decidesse a usarla di più in questo modo, magari risparmiandosi un attimo.

Ecco, il punto è anche questo: che quell’uomo, che all’anagrafe fa William Bruce Rose Jr., affronta con coraggio un concerto di tre ore e mezza e urla come un indemoniato su un muro sonoro di micidiale potenza. Gli anni sono trenta in più ma lui sta lì dietro il bastione delle casse sul palco e non si arrende e questa è una grande notizia. Anche perché, giusto per essere chiari, lui è Axl Rose e gli altri, tutti gli altri, quelli che oggi gli dicono di essere brutto, grasso, stanco, stonato, non lo sono. E c’è una differenza immensa, abissale… incolmabile.

D’altra parte, Slash è altrettanto immenso, anzi per certi aspetti lo è anche di più, perché si fa carico di una mole di lavoro mostruosa, permettendo ad Axl di rifiatare, inventando riff da stadio classicamente italiani sulla chitarra, improvvisando il tema del Padrino di Nino Rota, tirando fuori una versione strumentale di Wish You Were Here dei Pink Floyd insieme a Duff McKagan da brividi, migliore dell’originale.

La scaletta

Per il resto la scaletta è semplicemente una bomba, giudicate voi: It’s so easy, Mr. Brownstone, Chinese Democracy – forse l’unico pezzo debole del concerto ma va bene così – Welcome to the Jungle, da urlo, Double Talkin’ Jive, Better, Estranged, Live and Let Die dei Wings, mai così cruda e fiammeggiante, Slither, cover dei Velver Revolver, e mi torna in mente il mai abbastanza compianto Scott Weiland, Rocket Queen, Shadow of your Love degli Hollywood Rose, You could be mine direttamente da Terminator 2, Attitude dei Misfits, con McKagan sugli scudi, This I love, Civil War, assolo di Slash sulle note di Johnny B. Good, Speak Softly Love, tema d’amore del Padrino, Sweet Child O’ Mine, mozzafiato, roba da commuovere anche un serial killer, Wichita Lineman, cover di Jimmy Webb, una versione stratosferica di Coma infarcita di cambi, assoli, accelerazioni, in puro delirio rock, Wish You Were Here, l’outro di Layla come intro a November Rain, Black Hole Sun, I Used to Love Her, Knockin’ on’ Heaven’s Door, da brividi con la benedizione di “Uncle” Bob Dylan, Nightrain, Patience, lacrime per tutti, Yesterdays, The Seeker, omaggio agli Who, per chiudere con Paradise City dopo tre ore e mezza a palla, mandando tutti letteralmente in Paradiso.

Il verbo del rock

Finisce così, lasciandoci a sognare tutti e settantamila e a pensare che, in fondo, ci siamo riappropriati del verbo del rock: lo custodiremo come il più sacro dei tesori ed è questa la cosa più bella perché alla fine del concerto senti di aver ricevuto un dono pazzesco e speri che questa banda di pazzi scatenati ne abbia ancora per un sacco di anni, tutti quelli che serviranno per recuperare il tempo perduto, perché Axl con i suoi cappelli da moschettiere, i giubbotti di pelle con o senza frange, la camicia scozzese in vita che non serve ma spacca uguale, Slash con il cilindro, gli occhiali a goccia e le All-Stars ai piedi, Duff con la canottiera e il fisico di una statua scolpita nel legno, sono fra gli ultimi di quella tribù che si ostina a fare una musica che è energia pura, vera e propria dinamite elettrica senza retro-pensieri, doppi o tripli significati ma solo la gioia istintiva di divertire e intrattenere nel migliore dei modi inventati dall’uomo.

E chissà, se va avanti così, magari l’anno prossimo arriva pure Izzy… venerdì sera a Firenze mancava soltanto lui.