L’Halloween di Rob Zombie cerca di reinterpretare un classico, non è mai impresa da poco.
L’esperimento può andare alla grande, con risultati ben al di sopra dell’originale – “La cosa” di Carpenter o “La mosca” di Cronenberg, due remake in grado di mettere in ombra le rispettive fonti di ispirazione – , ma si tratta di casi rarissimi, eccezioni che confermano la ferrea regola che consiglierebbe ai più di lasciar perdere.
Il successo – e l’apprezzabile risultato artistico – di pellicole come “Non aprite quella porta” (e relativo prequel) di Marcus Nispel o “L’alba dei morti viventi” di Zach Snyder ha indotto i fratelli Weinstein a finanziare – insieme a Malek Akkad, figlio di Moustapha, storico producer della serie – un azzardato rifacimento del gioiello carpenteriano del 1978. Il mitico, epocale “Halloween”, capostipite dell’interminabile saga del killer Michael Myers, nonché, insieme a “Black Christmas” di Bob Clark – leggermente antecedente, per la verità – apripista del filone degli slasher movies.
Rob Zombie, uno dei più interessanti autori horror degli ultimi anni, con una visione forte e molto personale del Genere – come testimonia il celebre dittico “La casa dei 1000 corpi” e “The devil’s rejects” – , dopo aver accettato l’arduo compito, consegna una “mixed bag” con innegabili pregi, ma anche parecchi difetti.
Zombie, nella triplice veste di regista, sceneggiatore e produttore, aggiorna, con il suo stile ruvido, sporco e muscolare – e senza rinunciare alle abituali pennellate di pop-culture anni ’70, nonostante il contesto moderno – , la storia dell’assassino bambino Michael Myers, che a soli 10 anni, la notte del 31 ottobre, stermina la propria famiglia per diventare, vent’anni dopo, uno dei più feroci killer seriali che l’America cinematografica abbia mai raccontato.
A differenza della pellicola di Carpenter, il prologo sulla giovinezza del mostro – un efficacissimo Daeg Faerch, insieme tenero e sinistramente malato – si dilunga nell’illustrarne i soprusi subiti da coetanei e compagni di scuola, con il lento, inesorabile, affiorare della follia in un contesto familiare distratto (la madre Sheri Moon), quando non apertamente ostile (il padre “adottivo” William Forsythe).
L’esplosione della furia omicida di Myers, e il conseguente ricovero in un ospedale psichiatrico – dal quale lo stesso fuggirà da adulto, compiendo un’altra strage – , portano poi la storia sui noti binari, con The Shape di ritorno nella natia Haddonfield per chiudere, nel sangue, l’unico capitolo irrisolto delle sua travagliata infanzia.
Ed è qui, nella seconda parte, che a mostrarsi chiaramente irrisolto è, però, anche il film.
Zombie, infatti, umanizzando e “spiegando” il Male, ne disperde buona parte dell’alone di inquietante mistero che lo rendeva, nell’originale, sinistro e terribile. Myers, pur con l’ottima performance, molto fisica, di un minaccioso Tyler Mane, “buca” lo schermo in modo di gran lunga meno incisivo che in altre sue apparizioni.
Halloween si svela come l’opera meno personale del regista, un lavoro, cioè, nel quale Zombie si limita spesso ad un’esposizione quasi meccanica di fatti e sequenze, con l’effetto di farlo apparire, a tratti, come una mera riproposizione della concatenazione di eventi già conosciuti dal primo film.
Certo, rispetto al 1978 aumenta la dose di brutalità e violenza – sempre inferiore, comunque, agli analoghi prodotti di marca europea, vedi il francese, simile per toni e tematiche, “Alta tensione” di Alexandre Aja – , e non mancano i momenti riusciti: molto bello, ad esempio, il furioso incontro/scontro finale nella casa, tra Myers e Laurie Strode (Scout Taylor-Compton). Tra i “bonus” ci sono inoltre le suggestive scenografie, la fotografia, calda e vintage, e le apparizioni nel cast di una lunga lista di volti noti agli appassionati come, oltre al Dr. Loomis di un buon Malcolm Mc Dowell, Udo Kier, Danny Trejo, Brad Dourif, Ken Foree, Sid Haig, Danielle Harris, Bill Moseley e Richard Lynch.
Ciò che ci si aspettava, però, ed era lecito attendersi da Zombie, era una reale reinvenzione, attraverso lo sguardo di un autore interessante e mai banale, di una classic tale già tante volte copiata, ripresa e imitata, e che qui viene riproposta all’interno di una pellicola solida e diligentemente diretta, ma priva dell’energia creativa, e della visionarietà registica, che avrebbe meritato.