Hannibal Lecter – Le origini del male non è certamente un capolavoro ma almeno è un film con personalità e grinta
Il produttore Dino De Laurentiis aveva già regalato un prequel alla saga di Hannibal Lecter affidando a Brett Ratner, nel 2002, la regia del discreto Red Dragon.
A cinque anni di distanza, il tycoon italiano ci riprova, con un film che risale ancora più indietro nel tempo e si spinge fino all’infanzia del Mostro nel tentativo di esplorare, appunto, le origini del Male.
Nemmeno questa volta si è di fronte al capolavoro. A differenza però del bislacco Hannibal di Ridley Scott, o del diligente, ma troppo ordinario Red Dragon di Ratner, questo Hannibal Lecter – Le origini del male, firmato da Peter Webber, ha personalità e grinta da vendere.
1944: mentre la Seconda Guerra Mondiale sta per giungere al suo inevitabile epilogo, nella Lituania devastata dai bombardamenti un Hannibal di appena otto anni assiste all’uccisione dei genitori e all’orribile fine dell’amata sorellina Mischa, ammazzata e divorata da un gruppo di miliziani collaborazionisti del Reich, stremati a causa delle privazioni della guerra.
Ritrovato, denutrito e sotto shock, dai soldati dell’Armata Rossa, Hannibal viene “sistemato” in un orfanotrofio sovietico, dal quale riesce a fuggire solo diversi anni più tardi. Riparato nei pressi di Parigi, ospite della vedova dello zio, Lady Murasaki (Gong Li), il giovane Hannibal (Gaspard Ulliel), divenuto un promettente studente della facoltà di medicina – con la mente ormai devastata dagli indicibili orrori della Storia che ne hanno segnato l’esistenza e marchiato a fuoco l’anima-, inizia a meditare la giusta vendetta contro i responsabili delle atrocità subite da lui e dalla sorella.
Una volta identificati – anche grazie all’involontario aiuto di un ispettore di polizia parigino (Dominic West) – i nomi degli assassini, il futuro Dottor Lecter comincia la sua inarrestabile deriva verso la più brutale e inumana follia, attraverso una scia di sangue e omicidi che saranno il suo personale contributo alla riconciliazione nazionale dell’ipocrita dopoguerra francese.
Il regista Peter Webber (La ragazza con l’orecchino di perla) si dimostra la carta vincente di un’operazione a rischio bufala come poche altre, e che invece riesce ad indagare in maniera convincente tra le pieghe inconfessabili della personalità di una figura – come quella del cannibale più odioso e noto del cinema moderno – che sembrava aver davvero dato tutto.
Webber – per nulla spaventato dalla galleria di celebri firme che l’hanno preceduto nelle varie puntate della saga – dirige il film con un notevole gusto visionario, unito ad un’impeccabile cura per il dettaglio e ad un’apprezzabile attenzione per la complessa psicologia dei vari personaggi, Lecter ovviamente in testa.
L’autore, che non ha paura di sporcarsi le mani – e, infatti, il radicalismo splatter di alcune delle esecuzioni di Hannibal mostra una sensibilità lontana mille miglia dall’horror accomodante e addomesticato che tanto piace a certe major USA – , è abile nell’accompagnare il pubblico all’interno della spirale di irreversibile follia che risucchia il geniale Hannibal, creando un’empatia nei confronti di un animo inghiottito dal secolo degli orrori, che mai era stata possibile nei precedenti episodi.
Se lo spettatore, infatti, non può certo giustificarne gli eccessi – ben presto Lecter inizia anche a cibarsi delle sue vittime – , non può però nemmeno evitare di comprenderne almeno in parte le ragioni, provando quasi un senso di umana solidarietà per un ragazzo che trova la forza di voltare le spalle all’ultima flebile speranza di pentimento e salvezza – offerta da Lady Murasaki – per lasciarsi cadere nel pozzo nero della follia senza ritorno, allo scopo, irrinunciabile, di onorare una promessa fatta ad una bambina.
Hannibal Lecter – Le origini del male – scritto, dal suo romanzo, da Thomas Harris e prodotto da Dino e Martha De Laurentiis con Tarak Ben Ammar – è, insomma, una sorprendente piccola gemma insanguinata nel panorama del new horror, un sadico, ma intelligente gioiellino che all’intrattenimento gore diretto ai fan sa unire spunti di riflessione provocatori e mai banali, il tutto all’interno di una confezione di lusso, agile e autoriale al tempo stesso.
Qualche difetto, se si vuole – magari in certi ruffiani schematismi dello script di Harris e nella meccanica da revenge movie un po’ risaputa – , lo si può anche trovare, ma si tratta, anche di fronte alla prova superba dell’azzeccato cast (Gaspard Ulliel, ovvero come rendere umano un mostro e contemporaneamente sostituire un autore icona senza che se ne senta la mancanza, complimenti; Gong Li, ottima Lady Murasaki, aggiunge un’altra perla alla sua carriera occidentale), di cose decisamente di poco conto nell’economia complessiva dell’opera.