Hokage, la recensione di Matteo Strukul del film di Shinya Tsukamoto presentato fuori concorso all’80a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Mi spiace dirlo ma purtroppo Hokage – il nuovo film del grande Shinja Tsukamoto – si è rivelato una parziale delusione, specie per uno come me che per il maestro giapponese nutre una sincera venerazione. Sono lontani i tempi della trilogia di Tetsuo ma anche quelli di Zan che era stato presentato proprio qui, a Venezia, alla Mostra del Cinema e in concorso, nel 2018.
Non che Hokage – che concorre quest’anno in Orizzonti – sia un brutto film, ma il ritmo latita un po’ troppo, la storia appare esile, sottile come un filo, quasi l’autore l’avesse voluta solo accennare. Certo, le interpretazioni sono notevoli, su tutte, quella del piccolo Oga Tsukao, davvero toccante e intenso.
Il Giappone del secondo dopoguerra
Diviso in tre atti, il film si apre all’interno di un ristorante fatiscente abitato da una donna – ben interpretata da Shury – che pare voler rifiutare ogni contatto con l’esterno. Siamo nel Giappone del secondo dopoguerra, una terra devastata, in cui i rapporti sociali paiono ricondotti a relazioni primordiali e ammetto che la claustrofobia degli spazi e la violenza dei ribaditi stupri iniziali mi hanno indubbiamente scioccato.
In questo senso, per quanto tragico e senza speranza, l’attacco sarebbe sicuramente d’impatto, complici le luci tipiche di Tsukamoto e quella narrazione di sguardi, silenzi e improvvisi lampi di rabbia e violenza che rappresentano per certi aspetti una delle sue cifre stilistiche.
Il problema è quello che succede dopo. La storia pare sfilacciarsi. La donna accoglie una sorta di reduce con cui instaura un rapporto. Il bimbo che è con lei diviene un po’ alla volta il suo difensore più irriducibile e in questo sta la bella intuizione narrativa di Tsukamoto ma quaranta minuti di questa geometria di relazioni tutta sviluppata all’interno di una stanza, è francamente troppo.
Un romanzo di formazione
Il film poi pare aprirsi, in quello che nei successivi due atti diventa un romanzo di formazione del bambino ma le vicende appaiono alquanto scollate fra loro. Non si capisce bene come egli arrivi ad accompagnare un ambulante in verità un ex soldato a vendicarsi in modo sanguinario anche se la sequenza dell’omicidio è devastante come nella tradizione del regista e anche nel finale – in cui il bimbo impara a guadagnarsi da vivere – tutto sembra un po’ buttato lì, non adeguatamente sviluppato.
Sia ben chiaro, le emozioni ci sono, la resa degli esiti devastanti della guerra anche – l’inquadratura dall’alto dei lacerti d’una città incenerita, i reduci impazziti nel sotterraneo buio – la messa in scena per sottrazione, però, è un espediente che a lungo andare mostra la corda a meno di non considerare il film una sorta di trasposizione cinematografica d’un dramma teatrale. Ma anche in questo modo non ci pare di poter dire che basti.
Perciò, alla fine, torno a quanto andavo dicendo: mi aspettavo di più. Peccato. Non escludo però che possa andare a premio in Orizzonti, anzi.