I lupi di Venezia, la recensione di Linda Talato del romanzo storico di Alex Connor pubblicato da Newton Compton Editori.

I lupi di Venezia, recensione
  • Titolo: I lupi di Venezia
  • Autrice: Alex Connor
  • Editore: Newton Compton
  • PP: 384

Non è la Connor che conoscete. Questo è giusto dirlo sin da subito, perché chi ha già letto i romanzi di Alex Connor ed è abituato al suo ritmo, al suo stile e alla sua irriverenza, ne I Lupi di Venezia troverà qualcosa di completamente diverso.

L’ultima fatica della scrittrice inglese, di cui serbo sempre un ricordo affettuoso dall’edizione 2019 di Chronicae, è una storia ambientata nella Venezia del XVI secolo, ma non si tratta di un romanzo storico, a me è sembrato più un thriller psicologico dai forti tratti noir.

La trama si snoda tra i palazzi signorili della città, le vie del ghetto e le calli dove le prostitute si affacciavano dai loro balconi per attirare i clienti. I personaggi sono artisti, letterati, ebrei emarginati, prostitute e nobili, ma stavolta l’arte non è il fulcro principale della narrazione, come in Goya Enigma, e il ritmo non è incalzante, non troveremo colpi di scena continui, indagini macchinose… 

No. I Lupi di Venezia è un romanzo volutamente lento, che scava dentro riga dopo riga, battuta dopo battuta, in un crescendo che culminerà tra le ultimissime pagine, ma intendo proprio le ultime tre o quattro. Quelle, almeno per me, sono state decisive per dare un parere definitivo, per dire sì o no. Prima non ci sarei riuscita.

Dicevano che il suicidio per lei era stato una benedizione, una via di fuga dal dolore. Nei sogni, però, la sento rantolare, vedo le mani che artigliano il cappio attorno al collo, i piedi che sussultano e fremono, calciando l’aria secca, la vescica che si svuota mentre sta soffocando. È stata colpa mia. Se non mi avesse partorito, non si sarebbe mai uccisa. Io ero la larva nel suo ventre, il tarlo nella sua mente; io ne sono stato la causa, e mio padre me l’ha ricordato ogni giorno della mia vita.

Ok, l’incipit è di quelli a cui Alex ci ha ormai abituati, che afferrano il lettore per il bavero e lo trascinano dentro la storia senza tanto girarci attorno. E fin qui, tutto bene. Solo che, da lì in poi, cambia tutto, tanto che in più occasioni ho avuto l’impressione che l’autrice stesse sperimentando uno stile nuovo e si stesse addentrando nei meandri di una tecnica narrativa inedita per lei.

Il protagonista, Marco Gianetti, rampollo di una delle famiglie veneziane più in vista, è un personaggio con cui non sarà facile empatizzare, per il lettore, ma in realtà un po’ tutti i personaggi sono così: anche quelli più positivi come il medico Ira Tabat e sua sorella Rosella, o l’olandese Barent Der Witt, nascondono delle tracce di oscurità che confonderanno il lettore.

L’unica, almeno a mio parere, davvero positiva e dotata di una profonda umanità, a dispetto delle impressioni, è Lavinia Gianetti, la nonna di Marco, che interverrà alla morte di suo padre Jacopo e tenterà di guidare le scelte del nipote con saggezza e assennatezza. Ed è lei, insieme a Ira Tabat, che riesce davvero a tenere testa allo spregevole Pietro Aretino.

Aretino, Adamo Battista, Tita Boldini e il losco seguito dei loro leccapiedi sono i Lupi di Venezia. Personaggi infimi e infidi, che individuano i soggetti psicologicamente più deboli e fanno leva proprio sulle loro debolezze, sulle paure, ma non solo.

«Sii ragionevole, Marco. Qui non si tratta del futuro di un solo uomo, ma del futuro dell’intera famiglia Gianetti». Sorrise fra sé, ripensando a come aveva usato la medesima argomentazione con il padre del ragazzo e a come aveva reagito Jacopo. Chissà se suo figlio avrebbe avuto la stessa reazione. «Pensa alle terre che possiederai, ai cavalli, alle proprietà, ai dipinti. Tra le tante opere, tuo padre commissionò diversi quadri a Tiziano. Basta giocare a fare l’apprendista di Tintoretto, che si aspetta che l’erede dei Gianetti lavori per guadagnarsi da vivere.» … «Avrai domestici al tuo servizio, donne che esaudiranno ogni tuo capriccio. Senza la cupa influenza di tuo padre, palazzo Gianetti potrebbe diventare una casa di piacere famosa in tutta Venezia e persino in Europa…»

Marco cede alle lusinghe di Aretino, mettendo a repentaglio pure la vita dei suoi amici, ma avrebbe potuto agire diversamente, si chiede il lettore?

Beh sì. Avrebbe potuto. Avrebbe potuto prendere in mano la sua vita e rinunciare a lussi e agi, pur di essere libero, togliersi dai piedi Aretino e i suoi ricatti, ma non l’ha fatto. 

Forse perché troppo debole, troppo umano, troppo spaventato… Ognuno darà un’interpretazione diversa, quel che è certo è che la Connor finisce esattamente come doveva finire, nel modo migliore, intendo. Non come il lettore si aspetta che lei chiuda la storia, ma come è giusto che faccia.

Aspetto dei fantasmi, avrei voluto rispondere. Aspetto che mia madre venga da me, che soffochi, con i piedi che ciondolano sospesi da terra mentre cercano un punto d’appoggio. Aspetto rosella, che mi guardi scuotendo la testa, e Ira, oh sì, aspetto Ira Tabat. Furibondo, come un santo a cui è stato mancato di rispetto, gli occhi che fiammeggiano assetati di vendetta. Sì, avrei voluto rispondere, aspetto qualcuno.

E anche il lettore, una volta che avrà voltato l’ultima pagina, aspetterà che tornino quei fantasmi a tormentare Marco Gianetti, perché non può essere finita lì, non può andare davvero così, il lettore reclama giustizia.

E un sequel. Secondo me arriverà.