Icarus, la recensione di Claudia Grilli del docu-thriller di Netflix diretto e interpretato da Bryan Fogel presentato in anteprima al Milano Film Festival.
Siamo stati all’anteprima italiana di Icarus, il film vincitore nella categoria Miglior Documentario alla XVII edizione del MIFF – Milano International Film Festival, la mostra del cinema indipendente internazionale, soprannominata dalla stampa il “Sundance milanese“. Il film è stato proiettato prima d’ora solo al Sundance Film Festival 2017 e subito acquistato da Netflix per 5 milioni di dollari.
Il docu-thriller diretto e interpretato da Bryan Fogel prende le mosse dal suo intento di dimostrare la fallacia del sistema antidoping – in ultima istanza dell’Agenzia Mondiale Antidoping (in inglese World Anti-Doping Agency – WADA) – nell’identificare determinate sostanze dopanti nel mondo del ciclismo a seguito del caso Lance Armstrong.
Fogel iniziò ad assumere tali sostanze, sotto le direttive via Skype del dott. Grigory Rodchenkov, responsabile del centro antidoping a Mosca.
L’obiettivo di Fogel era testarne gli effetti sulla propria persona durante l’ “Haute Route”, corsa ciclistica per non professionisti su percorso montuoso, ma non avrebbe mai potuto immaginare quanto in alto a sua “volata” l’avrebbe portato, con il rischio di “bruciare” … come Icaro (curioso peraltro che “vogel” – pron. foghel – significhi “uccello” in tedesco).
Per effetto di una serie di circostanze Fogel e Rodchenkov, diventati amici, si ritrovano loro malgrado catapultati in una sorta di Oceania – la superpotenza sotto il dominio del Grande Fratello in “1984”, il romanzo di Orwell che Rodchenkov sta leggendo.
A questo punto la sceneggiatura (dello stesso Bryan Fogel e di Mark Monroe) subisce un’avvincente accelerazione, anche se l’effetto potrebbe risultare a tratti esagerato da scelte registiche, tanto da sconfinare nella teatralità (del tipo delle ricostruzioni con attori di avvenimenti di cronaca nera), se non addirittura nel sensazionalismo … ma questo è il punto di vista di chi vive in Eurasia (l’Europa in “1984”).
Pur trattandosi di un documentario piuttosto lungo (circa due ore) il pubblico rimane agganciato non solo dall’incalzare degli eventi, ma anche dalla potenza della musica (di Adam Peters) che li accompagna. Inoltre i disegni, anche animati, costituiscono una tecnica molto efficace per fissare concetti e allo stesso tempo scandire la narrazione.
Il consiglio è quindi di aggiungere sin da ora Icarus a “La mia lista” su Netflix in attesa che sia reso disponibile anche in Italia.