Il buco è uno dei film più discussi del momento tra quelli proposti da Netflix. Ecco la recensione del nostro Matteo Marchisio.
Ci sono quei film che arrivano in sordina, come Il buco. Vincono premi come il Torino Film Festival, il Toronto e il Goya, il più alto riconoscimento cinematografico spagnolo. Poi vengono adocchiati da grandi case dello streaming. Allora è fatta.
Questa è più o meno la storia di The platform in inglese, El hoyo in spagnolo, meglio noto come Il buco per chi parla italico, acquistato nel 2019 e diffuso da Netflix a marzo 2020.
Il gigante dello streaming californiano ha dimostrato di essere in grado di cogliere la potenzialità estrema di questo lungometraggio horror-fantascientifico spagnolo, l’opera perfetta per godersi le settimane di quarantena.
Il buco sembra il cugino di terzo grado spagnolo del coreano Parasite in quanto critica sociale sullo spreco e le disuguaglianze e fa il verso alla Divina Commedia per la struttura a piani, gironi perversi dove vengono messi a nudo gli scheletri della peggio umanità.
Il buco deve essere visto perché grazie a una trama dallo storytelling perfetto, impone una delle più pesanti riflessioni dell’umanità: perché essere civili?
El hoyo ci trascina in una prigione claustrofobica, organizzata verticalmente: un montacarichi zeppo di cibarie prearate da chef di classe passa giornalmente a ogni livello, offrendo le proprie leccornie ai due prigionieri per stanza.
Di conseguenza la qualità del cibo che parte dal primissimo livello di detenzione e arriva all’ultimo è tutta sulle spalle di chi lo consuma e come lo consuma. Premesse semplici, applicate a una scenografia che mette insieme una manciata di detenuti, le mura di cemento armato degli ambienti e un sacco di cibarie accatastate.
Il protagonista è Goreng un volontario in cerca di un attestato di permanenza nella prigione più particolare del mondo, che si sveglia nella cella assegnata. Con il passare dei giorni e in compagnia di Trimagasi, un compagno di prigionia che ricorda il dottor Lecter, comprende quanto l’idealismo di mettere sé stesso alla prova con un ambiente duro, ma sottomesso a tutte le apparenze della vita quotidiana, venga sconfitto di una serie di sfide mortali.
Con il passare dei giorni si addentrerà nei meandri della prigione, scoprendo quanto Il buco sia profondo, tanto oscuro da trasfigurare l’uomo che ne era entrato in un ammasso di carne, allucinazioni e fame.
Una distopia lunga 94 minuti
Nelle intenzioni del regista, tale Galder Gaztelu-Urrutia, Il buco è una distopia di 94 minuti sulle idiosincrasie della società occidentale, in cui il senso dei rapporti umani viene decostruito fino alle sue radici più primitive, ovvero cosa si è disposti a fare per riempirsi la pancia?
Quale è il confine tra civiltà e il più bestiale, assoluto come direbbe Hegel, senso sopravvivenza? Bobbio sosteneva che l’eticità di una società corrisponde all’eticità del singolo: in una prigione verticale in cui fin dal primo livello si sputa dove si mangia, come può avere senso?
Ne Il buco fa il contratto sociale di Rousseau mentre i detenuti battibeccano sul fatto che il cannibalismo sia l’unica opzione. Si sfiora Hobbes con il suo Leviatano, quando qualcuno prova ad imporre ordine a bastonate: se i detenuti mangiassero il giusto, senza sprecarlo o pisciarci sopra per puro sfregio verso quelli che seguono, si potrebbero alimentare tutti i carcerati.
Una trama complessa fatta dei dubbi che aggrediscono Goreng e chi lo osserva cercare una via d’uscita e del sangue che zampilla ogni volta che la decisione non sarà quella giusta. Ma qualcosa, dopo tanto orrore, si salverà.
Nel punto più estremo, per gli amanti della panna cotta, la redenzione arriverà inaspettatamente. Nel livello più buio, nel cuore di tenebra di Il buco, al fondo di quel pozzo di sangue e follia, nell’oscurità dell’animo più assoluta, una luce taglierà la scena illuminando l’unica creatura degna di tornare in superficie.